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L'Inesistente

06 marzo 2017

La mano


Salvador Dalí, La lucha con los cueros del vino, 1920s

***

Non si sarebbe certo strappato via dal letto se il contatore della camera 631 non si fosse trovato all’esterno del motel, e se la luce non fosse mai stata così importante come quel giorno.
     Svegliato dal bip di un’email, aveva cercato il Mac a tentoni, digitando la password con la mano sinistra senza abbandonare la posizione prona, ma lo schermo si era spento subito; la spia del caricatore non era né rossa né verde; provate invano tutte le spine, si rassegnò a mettersi le mutande, aprendo la porta con gli occhi ancora incrostati di sogno.
     La prima cosa che vide furono i raggi del sole che filtravano attraverso il telaio forellato della sua Ferrari verde metallizzata: una scarica di mitragliatrice, magari alla cieca, dall’alto. La luce scivolava sull’orlo di ciascun buco come l’ombra scintillante di un proiettile, rincorrendo se stessa sulla superficie di tutte quelle microcirconferenze sghembe, quasi fosse logico tornare al punto di partenza prima di lanciare l’ultimo riflesso.
     La seconda cosa che vide, alzando la testa fracassata dall’abuso di alcol e gocce di Valium, furono i palazzi mangiati dalle esplosioni; spirali di gabbiani frusciavano sguaiatamente attorno, vivisezionando membra (forse umane) che ancora si muovevano a scatti; enormi chiazze di rosso colavano oltre il vuoto delle finestre spalancate, come se Polifemo, per ripicca, avesse frullato nello stesso otre tutte le sue capre rovesciandole in faccia a Nessuno.
     La terza cosa che vide – non molto distante dai suoi piedi scalzi, dalla bottiglia di latte puntualmente consegnata alle 5:55 AM e, soprattutto, dal contatore – fu la mano, bianchissima; una mano senza corpo in una pozza di sangue sull’asfalto sbrindellato.
     Il cielo mescolava l’incessante frullio intriso di smog dei gabbiani all’eco di eliche di elicotteri; però i gabbiani erano più vicini: uno di loro si appollaiò sul tetto della Ferrari, fissandolo con un brano di cadavere nel becco. Lui si rannicchiò sulla mano, forse la mano di una donna: appena munta dalla morte, pensò.
     Appoggiò la schiena all’oblò metallico del contatore e trangugiò mezza bottiglia di latte a grandi sorsate, spremendo più volte le pupille infilzate dai riflessi del sole. Il gabbiano continuava a fissarlo. Lui riavvitò con cautela il tappo della bottiglia, prese la mira, e la scagliò nella direzione del pennuto, tranciandogli la testa di netto. Quel che restava del gabbiano si afflosciò lentamente sul parabrezza.
     Non restava che armeggiare con il contatore e leggere quella dannata email, ma girandosi vide un piccolo oggetto rettangolare attaccato all’oblò con lo scotch: una scatola di fiammiferi. L’esaminò puntellando il peso sui talloni, reclinando il capo per fare ombra: sul retro c’era scritto qualcosa. Si mise tra i denti la scatola di fiammiferi, raccolse con delicatezza la mano dall’asfalto, e con il gomito spinse la porta della stanza verso l’interno.
     Qualche lama di luce filtrava dalle tapparelle difettose. Si fiondò verso il piano cucina, urtando il ginocchio contro l’orlo della libreria, ma riuscì a posarvi la mano; trattenne l’urlo con la scatola di fiammiferi in bocca, perché le mani (almeno le sue) dovevano rimanere libere e agire in fretta.
     Indossò una sudatissima maglietta nera con lo stemma di Batman, dei jeans arrotolati in fondo al letto, calzini di spugna, New Balance e occhiali da sole spessi come un’enciclopedia; ficcò in valigia tutto quello che riuscì ad acciuffare. La mano, per quella usò uno di quei sacchetti trasparenti per i liquidi che danno all’aeroporto, e gli sembrò di essere incinto; prese quindi la 44 Magnum acquistata su eBay e cominciò a spargere Żubrówka dappertutto.
    Al primo fiammifero divampò l’incendio, che si lasciò alle spalle correndo verso la Ferrari bucherellata, chinandosi per proteggere l’inaspettato feto; mise in moto. Spiaccicando il gabbiano decapitato alla prima sferzata contro un palo della luce, miracolosamente partì: il volante appiccicoso di latte, le tasche piene di Valium, la mano mozza di una sconosciuta in grembo.

Il Barone Inesistente

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17 ottobre 2016

Canto dell'Hard Rock Café #8


Hard Rock Café sign, Pigeon Forge, Tennessee

***

Entrai nell’Hard Rock Café annaspando come un anfibio vincitore di una gara di corsa contro il diluvio. Avrei voluto che una mano invisibile mi strizzasse nella sua morsa da capo a piedi, ma probabilmente mi sarei dissolto in una pozzanghera allagando l’intero locale, causando un cortocircuito e l’esplosione delle casse che ovunque rimbombavano How soon is now? degli Smiths; inoltre avevo già messo in conto una broncopolmonite per la mattina successiva, sempre che già non avessi una febbre da cavallo. Un cavallo con le branchie, febbricitante, che nascondeva il libro H631 sotto il cappotto inzuppato. Mi suona il telefono, messaggio su WhatsApp: Ce l’hai? Mi guardo attorno per individuare il trespolo dal quale il professore avrebbe potuto scorgermi, ma la sala era piena di gente sbevazzante o intenta a giocare a Pokémon GO, come i due ragazzini di spalle al centro del bancone: C’è un Magikarp che sguazza nel mio succo d’arancia! L’ho visto prima io! No, è il mio bicchiere e lo prendo io! Guarda che dico a mamma che hai versato la sua cosa nel tuo succo! Ehi, mi fai male! Mamma è in bagno, e se continui a rompermi te ne do un altro! Mi suona il telefono, messaggio su WhatsApp: Insomma, ce l’hai? Appendo il cappotto e mi riavvio il ciuffo con il mio pettinino di acciaio tascabile: Ce l’ho, dove sei? Si avvicina un giovane cameriere, sudatissimo e brufoloso, che sembra intrippato da chissà quale acido; guarda mille anni luce oltre di me: sta aspettando qualcuno, signore? Sì, in un certo senso... Vuole accomodarsi intanto? Grazie, sarebbe magnifico! Se ne va senza dire altro, pispolando con l’iPhone: magari anche lui sta cercando di afferrare qualche Pokemon. Mi siedo a un tavolino con un tovagliolo accartocciato e una tazza non finita e sporca di rossetto: giro la tazza verso sinistra e finisco quello che c’è dentro, forse cappuccino. Quando abbasso la tazza, lui è seduto davanti a me: capelli e pizzetto bianco, e quel fastidiosissimo bottone di agata nera che mette ancora a posto della cravatta per fare l’intellettuale figo. In coda agli esami o ai ricevimenti avevo ribattezzato quell'aggeggio 'la monade': oh, oggi c'ha la monade! Sei in ritardo, dice fissandomi con i suoi occhi da nemico di Batman: due cubetti di ghiaccio appuntiti e roteanti, pronti a schizzare fuori dalle orbite. I ragazzini che giocavano a Pokémon GO non sono più seduti al bancone, uno di loro ha lasciato una felpa azzurra sulla sedia; gliel'ho regalata io per Natale, quella, al mio bimbo più bullo. Sulla sedia accanto è comparsa una donna molto pallida, una sagoma di alabastro sottile vestita di nero, con le spalle scoperte e una cresta arancione. Ti piace, vero? Ha i capelli di colore diverso tutte le sere, osserva con una smorfia. Un tempo avevi gusto, sia per le donne sia per la filologia classica. Non sei più il mio professore e me ne sono sempre fregato delle tue teorie sull’alfa ionica! L’hai pure messa in cinta di due marmocchi, ma non ti vergogni? Una cantante punk da quattro soldi! Non è colpa mia se tua figlia è di una noia mortale. Eppure mi pare che tu la apprezzassi per la sua cultura… La sua cultura, mi scappa un ghigno, e col pollice gratto via il rossetto dalla tazza di cappuccino. Lo sai che sono tutte balle, me la sono fatta perché mi avevi promesso quella borsa alla Oxford University e tante altre belle cose, ricordi? Non ti facevo così, tutto res extensa: meriti questo, fa indicando teatralmente la mia famiglia col palmo all'insù; ti sei lasciato passare troppi treni sotto al naso... La tua smania di litigare con tutto! C'è sempre un nuovo treno da prendere, e forse anche un treno merci diretto in Tennessee potrebbe essere il migliore dei treni possibili... Questo idealismo naïf non ti ha portato molto lontano, caro! Definisca il concetto di 'lontano', professore. Non ho tempo per questi giochi, ce l'hai il libro? fa lui, visibilmente irritato. Sfilo l’H631 da sotto la gamba e lo ripongo sul tavolino con una mano sopra, non mi sono tolto i guanti: eccolo! i suoi cubetti di ghiaccio sfrigolano di stupore. Be’, come hai fatto? Non importa come ho fatto, so bene quanto vale una cinquecentina di Luciano di Samosata: almeno quanto un Magikarp livello 100. Cosa? Lascia stare, dov’è il trolley? Nel bagno delle donne. Bene, muoviamoci! Al bancone mia moglie e i miei figli sono di nuovo insieme, e giocano. Lei mi guarda con la coda dell’occhio, e capisce che la fuga sarebbe stata imminente. Il professore apre la porta e mi mostra il trolley in uno dei cessi laterali. I soldi ci sono tutti. Mi strappa di mano l’H631: le pagine sono tutte bianche. I suoi cubetti di ghiaccio roteano impazziti, ma poi si sciolgono per la frustrazione: è uno scherzo? Qualcosa del genere. Le sue labbra si muovono, ma prima che possa pronunciare qualunque tipo di protesta, il mio pettinino di acciaio gli ha aperto la gola. La monade rotola per terra.    
     
   Il Barone Inesistente

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