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L'Inesistente: marzo 2017

14 marzo 2017

Il radar


Salvador Dalí, Quimera de quimeras, 1920s

***

Chiuse il Mac; dando l’ultimo sorso al suo cocktail, si trascinò verso il tavolo di legno. Prese le forbici e, contemplandosi sulle parche superfici metalliche liberate dal sangue raggrumato, cercò di sistemarsi il ciuffo unto, pensando alle crudeli sdolcinatezze spremute della sua ex moglie in quella dannata email; pensò al banner, alla possibilità di lasciare per sempre la Terra, a una vita quasi tranquilla con i suoi figli sul pianeta alfa; delle lacrime furiose gli scesero sul volto scavato; avrebbe voluto avere con sé l’amuleto di plastica che aveva immeritatamente restituito a quella spocchiosa ragazza in discoteca, e cambiare le cose, anche se solo per una volta, tutte le cose.
     Lasciò che la testa appesantita dal Valium ricadesse sul tavolo; le forbici rimasero sospese in aria qualche secondo, poi le affondò nel legno; tre colpi sgusciarono avanti e indietro come se attraversassero uno strato di burro dipinto; la barbie fece una piroetta all’indietro, gravitazionalmente richiamata dalla tenerezza di quello sfasciamento, atterrando di schiena sull’impugnatura delle forbici.
     Lui ruotò le orbite verso i capelli della barbie sparsi sul suo pollice: notò che erano dello stesso colore dei suoi, notò i giganteschi occhi verde metallizzato di lei; notò la piccola bocca rossa che accennava un sorriso perpetuo e le gambe a triangolo isoscele, ancora scintillanti di saliva; notò la bisettrice di quel triangolo che dipartiva dal punto più intimo, disegnando una sottile crepa nel tavolo.
     Appoggiò l’osso orbitale sulle gambe della barbie, facendo attenzione a non prendere la scossa dalla lampadina che gli penzolava nuda e intermittente a un palmo dalla nuca: un puntino verde apparì per un momento e uno rosso, più veloce, gli passò vicino apparendo e sparendo tre volte. Un radar, pensò.
     Riposta la barbie nel kit da pronto soccorso, e quest’ultimo sul pavimento, cominciò a divellere il tavolo a colpi di forbice, iniziando dalla bisettrice. Uno schermo a scacchi con puntini verdi e rossi che apparivano e sparivano emerse dal legno che andava smembrandosi tutt’attorno.     
     Prese una lattina di birra dal frigo, controllando il freezer: la mano era ancora lì, nel suo sacchetto trasparente; mise la sedia vicino al commesso svenuto sul divano e vi si sedette cavalcioni; gli dette uno schiaffo per guancia, quindi gli stappò la birra in faccia, facendogliela gorgogliare in gola.
     Che diavolo è quella roba?! Gridò puntando la 44 Magnum verso ciò che restava del tavolo. Il commesso vomitò, scalciando e capendo di essere in trappola, con il braccio sano legato al termosifone. Dimmi subito cos’è quella roba e a cosa serve! Io non ti dico proprio un fottuto niente! Credi non sia capace di torturarti? Sai di essere un clone e i Let it be ti hanno offerto qualcosa per fare la spia, vero? Magari un banner per rifarti una vita sul pianeta alfa? Be’, sappi che non appena arriverai laggiù, ammesso che ti ci facciano arrivare, ti elimineranno all’istante e neanche la copia della copia della tua misera vita sarà mai esistita!
     E tu come lo sai, non saresti disposto a rischiare? Sai cosa vuol dire sapere di essere un clone in un pianeta di cloni programmato per essere distrutto? No, non lo so, ma so che le sonde Let it be ci stanno a tre metri dal culo e che dobbiamo sbaraccare il prima possibile: ho visto un puntino rosso poco fa! Io non vado da nessuna parte. Invece sì, tu vieni con me, non ho tempo per capire come funziona quella specie di radar, ma so che potrebbe salvarci! Mi hanno promesso una villa e un sacco di soldi: io qua non ho più niente, sulla Terra, o quello che è, sono un traditore per i conigli neri e chiunque di loro vorrebbe uccidermi, mentre i Let it be mi hanno dato la speranza di un futuro da costruire!
     Balle: ti stanno plagiando e usando, capisci? Pensi che nel loro fanatismo accetterebbero di essere stati aiutati a costruire la culla dei pargoli dell’avvenire da un coniglio nero corrotto? Pensi davvero che ti lascerebbero vivere? Come puoi essere così ingenuo?
     Perché dovrei fidarmi di te? Perché la mia ex moglie è una dei pionieri dell’operazione Let it be, so come ragionano, ti faranno fuori non appena avrai esaurito i tuoi compiti; inoltre, io sono l’unico che non vuole ucciderti: avrei potuto farlo una volta ottenuto il ghiaccio, o sbaglio? Fidati di me. C’è una doccia, hai dei vestiti puliti? Sì; bene, allora smettila di piangere, laviamoci e diamo fuoco a questo posto, il radar me lo spiegherai strada facendo: andiamo in città. Ma dove, in città? Qui, disse mostrandogli la scatola di fiammiferi.

Il Barone Inesistente

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12 marzo 2017

Un elefante si dondolava

Salvador Dalí, Sans titre, 1920s

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Ricordi quella volta all’asilo, si giocava a ‘Un elefante si dondolava’? Toccava a me, ritenendo la cosa interessante, andare a chiamare un altro elefante, ma presi la mano di quello che ti sedeva accanto, non la tua. Non che stessimo ufficialmente insieme, sia chiaro, avevo tutto il diritto di non sceglierti, però tu l’hai presa malissimo e mi fissavi da lontano, con il tuo sguardo da cyborg umiliato e offeso, mentre io ridacchiavo vaporosa nel mio grembiulino rosa per farti arrabbiare ancora di più. Eri un bel bambino, benché cleptomane e lievemente bipolare già all’epoca, con gli occhi color fango insanguinato e i capelli biondi sempre in disordine; ogni tanto sorridevi.
     Ti avevo regalato un pezzo di plastica trasparente per il tuo compleanno, ed eri così felice: ti avevo spiegato che era un cristallo magico, che avrebbe avuto il potere di cambiare le cose come avresti voluto, anche se solo una volta, tutte le cose. E tu hai conservato quel pezzo di plastica fino a ventun anni, quando ormai le tue fantastiche manie erano state frullate insieme dagli esperti nella categoria ‘disturbo della personalità’: alla mia festa di laurea in discoteca mi hai preso da una parte, vicino al bagno delle donne (con tutte le ragazze in fila che, interessate, si dondolavano), mi hai messo quel pezzo di plastica al collo e mi hai urlato nell’orecchio: ‘Io sono il ragazzo migliore che tu possa trovare, o scegli di frequentarmi ora o nulla! In ogni caso ti sto facendo il più bel regalo di laurea che ti potesse capitare!’. Una settimana dopo mi hai chiesto di sposarmi e tutto quello che sai.
     Ti scrivo per dirti che all’epoca non ti scelsi perché tu non sei come gli altri elefanti, che si dondolano sul filo di una ragnatela e, ritenendo la cosa interessante, chiamano un altro elefante. Tu sei l’elefante sabotatore che con un colpo di proboscide fa crollare tutto; che tu sia goffo o che tu lo faccia apposta, sei nato per distruggere. E non lo dico per rimproverarti da ex moglie nostalgica. Ti chiedo semplicemente di smetterla subito, per i tuoi figli, che senza di te stanno appassendo (il piccolo non parla più), perché a piccole dosi, la tua sincerità disarmante riesce a fare del bene alle persone, spostando e trasformando i contesti, sabotando al contrario, come l’amuleto di plastica con cui mi hai incastrato.
     Arrenditi: l’epurazione è cominciata con il blackout di stanotte e procede rapidamente per distretti; il progetto dei conigli neri è miseramente fallito: una fabbrica di cloni, relitti sintetici per creare una popolazione fake con cui rimpolpare la Terra (assurdo!), una trovata pubblicitaria sostenuta per ripicca da quelle big corporation tagliate fuori dai proventi dell’operazione Let it be. Una volta che tutti i conigli neri saranno morti, ma forse anche prima, riprodurremo una glaciazione sulla Terra per farne una riserva di ghiaccio per il pianeta alfa, lo chiamiamo così. 
     Sai che i conigli neri non potranno farcela da soli; tu non potrai farcela da solo: combattere i mulini a vento non ti porterà a salvare la Terra, la tua famiglia; non ti riporterà neanche da me. Come ben sai mio padre è un pezzo abbastanza grosso della NASA; non ti ha mai sopportato, ma non può ignorare quanto la tua assenza radicale non giovi alla crescita dei suoi nipotini; posso chiedergli di crearti una nuova identità, spedirti il banner, e lasceresti per sempre la Terra.
     È finita: l’iperuranio è caduto e rimangono solo poche copie di cui disfarsi. Io ho scelto di dimenticare il mondo che ho vissuto, ho scelto la verità di un futuro da costruire; se tu scegli di combattere perché per te quel pianeta di menzogne è il simbolo di non so cosa, lo farai sacrificando il bene di chi ancora un po’ ti ricorda. Vuoi fare l’eroe? Pensi che i giornali del pianeta alfa parleranno di te come del grande elefante sabotatore che ci costringe a mollare tutto per mescolarci ai conigli neri? Sparirà tutto. Su di te non sarà scritta neanche una riga, e gli elefanti continueranno a ritenere interessante dondolarsi sul filo della ragnatela. Il pianeta Terra diventerà una sorgente perpetua di H2O, un cumulo di rocce e ghiaccio che servirà a dare linfa al pianeta alfa. Ti daremo un lavoro semplice, da manovale, magari ti farai degli amici e potrai vedere i bambini tutte le volte che vorrai; anche me, forse. Potresti aiutarmi in laboratorio: qui sono una botanica livello 9, e ho il diritto a scegliere un assistente, che ne pensi? Potresti piantare tuberi nelle serre o scrivere canzoni divertenti per i pargoli dell’avvenire; insomma, tu non hai mai saputo fare niente di sensato, ma qualcosa ci inventeremo. Abbiamo poche ore: entro la prossima alba le sonde Let it be avranno già rastrellato tutti i distretti. Ti prego, rispondimi al più presto.  

Il Barone Inesistente

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10 marzo 2017

Barbie


Salvador Dalí, Le géant Beliagog, 1920s

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Farà male, disse. Il commesso replicò con uno scatto rabbioso degli occhi; gli aveva infilato una Barbie in bocca, suggerendogli di morderla per contenere il dolore al momento dello strappo; non aveva trovato un oggetto più adatto a quell’uso e, a essere sinceri, non si era neanche impegnato troppo nella ricerca. Erano saliti a un piano superiore, dove c’era una stanza piena di scatole di cartone con articoli regalo, un divano rosso in pelle e, soprattutto, il filo di una lampadina, unica fonte di luce che oscillava nuda e intermittente sopra un tavolo di legno; il tavolo aveva l’aria di essere stato rifunzionalizzato in infermeria (e altro) svariate volte.
     Lo strappo, necessario, fece male. Posò le forbici sul tavolo. Fermo! Bravo, continua a mordere la Barbie, devo fermare l’emorragia e pulire questo disastro. Il commesso grugniva, anche se aveva deciso di fidarsi: non poteva andare in ospedale né aveva voglia di perdere la mano per una stupida diatriba sul ghiaccio; che se lo prendesse tutto, il ghiaccio… Ma sentiva che non era l’unica cosa che quell’uomo strambo avrebbe preteso da lui; e se aveva dato priorità a medicarlo, non aveva intenzione di ucciderlo, almeno non subito.
     Come ti senti? Ah già, scusa, puoi sputare la Barbie adesso. Mi gira la testa. È normale, hai perso molto sangue. Senti, se ti do il ghiaccio te ne vai? Non credevo di starti così antipatico, a pelle. Cos’altro vuoi? Devo ricaricare il Mac. Come? C’è una spina da qualche parte? Dietro al divano. Non provare a mentirmi, non farlo mai più; controlla, se non mi credi. Lo prese per il braccio sano; andiamo, stenditi sul divano. La Barbie era finita a testa in giù sull’orlo del kit di pronto soccorso, dalle gambe aperte colavano densi rivoli di saliva.
     Il commesso non si reggeva in piedi, non avrebbe opposto resistenza. Questa la togliamo, spero tu abbia dei vestiti puliti anche per me; cosa, che hai detto? Gli tagliò la camicia con le forbici e lui rimase a torso nudo, dandogli la schiena, il capo ciondolante. Aveva perso conoscenza; lo strinse con più forza per non farlo cadere, e scorse il disegno di un minuscolo coniglio nero tatuato sul deltoide posteriore destro.
     Lo spinse fino al divano, lo mise a sedere e, dopo avergli legato il polso sano al termosifone con tutte le bende rimaste, gli stese le gambe. Togliendogli le scarpe, si accorse che lì vicino c’era una presa. Si precipitò di sotto a recuperare la valigia che aveva lasciato dietro un cassonetto, nello slargo con i distributori di benzina dove aveva parcheggiato la Ferrari verde metallizzata; ne approfittò per riprendere gli occhiali da sole che aveva lasciato sul bancone. La valigia e la macchina erano ancora là; forse erano gli unici sopravvissuti in quel distretto.
     Tornato nella stanza di sopra, notò che il commesso era ancora privo di sensi, ed era tremendamente bello, sdraiato così tipo Rose del Titanic, però naufragata o, comunque, quasi morta. Rovistò lo spazio alla ricerca del frigo, che trovò facilmente dietro un telo di velluto blu, che si chiuse alle spalle. Tirò fuori il sacchetto trasparente da sotto la maglietta; il sacchetto con la mano, quella che aveva raccolto per strada dopo aver letto le istruzioni sulla scatola di fiammiferi, quella mano bianchissima con un minuscolo coniglio nero tatuato nell’incavo, identico a quello sulla spalla del commesso.
     Riempì il sacchetto di ghiaccio e lo posò nel freezer, sperando potesse bastare; agguantò una lattina di birra e uscì dallo sgabuzzino. Si tolse la maglietta di Batman, ormai un solido di sangue e sudore, e la buttò in valigia, facendo lo stesso con i pezzi della camicia strappata di lui rimasti sul pavimento. Estrasse un boccale da un mini angolo cottura e ci fece scivolare cinque cubetti di ghiaccio, su cui versò in contemporanea la birra e un’intera boccetta di Valium; mescolando con una forchetta la bevanda così ottenuta, prese il Mac dalla valigia e lo attaccò alla presa; si accese una spia verde. Il cavo del caricatore era corto, non avrebbe mai raggiunto il tavolo; si rassegnò a sedersi per terra accanto al divano: i piedi del commesso gli sfioravano i capelli; aveva calzini di seta beige, umidi e sottili. Prima o poi si sarebbero fatti una doccia, pensò. 
     Assaggiando avidamente l’intruglio che si era preparato, osservò la vagina insalivata della Barbie rimasta capovolta sul tavolo; quindi puntò il cursore sulla mailbox e premette invio.

Il Barone Inesistente

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08 marzo 2017

Il ghiaccio


Salvador Dalí, La Aurora de Cervantes, 1920s

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Ho bisogno di ghiaccio, disse. Il commesso di là dal bancone, un ragazzo sulla ventina alto e robusto, si passò sulla fronte entrambe le mani, per riavviarsi il ciuffo nero inzuppato di sudore, quasi la fronte fosse il suo organo ricettivo dell’udito. Come? Ho detto che ho bisogno di ghiaccio. Dal soffitto dello store deserto pendeva un aggeggio a pale, che ventilava con flemma cigolante sulle loro teste. Una pala mancava; le altre, sporche e ingiallite, erano collegate da ragnatele. Una specie di aurora tardiva penetrava a fiotti dalla porta di vetro dell'ingresso, bruciando ogni molecola respirabile.
     Il commesso si arrotolò le maniche della camicia azzurra mostrando grosse braccia tatuate, e se le mise dietro la testa, dondolando leggermente sullo sgabello; sorrise, mostrando una striscia di zanne da pubblicità di dentifricio: avrebbe potuto mordere e straziare qualsiasi animale. La vendetta del gabbiano, pensò.
     Ce l’hai un documento? Lui tirò fuori dalla tasca posteriore dei jeans il libretto universitario, sfiorandosi la maglietta sempre più mezza all’altezza del ventre: prima di scendere dalla macchina aveva attaccato il sacchetto trasparente alla pancia con pezzi di nastro isolante, ma stavano cedendo; la volata della 44 Magnum gli solleticava l’ano.
     Il commesso lo immerse per qualche secondo nel suo sguardo blu da bullo di tutti i mari, quindi pescò dal bancone il libretto universitario con la mano sinistra, osservandolo come una carta da poker certamente scarsa. Wow, Facoltà di Medicina… E guarda che bei voti! Si accese una sigaretta, pareva divertirsi. Un po’ fuori corso a… Trentacinque anni? Ma i boccoli d’oro ce li hai ancora tutti! Ho detto che ho bisogno di ghiaccio. E io dico che devi darti una calmata e toglierti quei ridicoli occhiali da sole, okay? Lui obbedì, posandoli vicino alla cassa; da un barattolo spuntavano delle forbici a punta non arrotondata.
     Il commesso fissò la fotografia, poi si alzò in piedi e sbattè il libretto dove lo aveva preso. Le loro facce erano vicinissime, il suo alito  sapeva di birra. Mi spiace, piccola biondina nerd, tutto il ghiaccio che avevo si è sciolto stanotte per via del blackout: mi ha fottuto tutti i surgelati; vedi là, quelle pozzanghere in fondo? Indicò una serie di sportelloni svuotati da cui lingue gonfie di acqua putrida si allungavano verso gli scaffali di dvd e cibo secco o in scatola; ecco, se mi aiuti ad asciugarle ti regalo un Chupa Chups, aggiunse spegnendo la cicca, con un’espressione felicemente sconsolata, le braccia conserte sul bancone.
     Lui sfilò le forbici dal barattolo e gliele infilzò nel polso sinistro, facendo leva con tutto il peso del corpo per placcarlo; il commesso spalancò la bocca in un grido; lui ne approfittò per prendergli la nuca con la mano libera e baciarlo, prima di ricevere una testata che lo catapultò all’indietro contro uno scaffale di frutta sciroppata. Il commesso imprecava, paonazzo; prese una pistola da sotto il bancone e sparò a raffica, esaurendo tutti i colpi, schizzati alla rinfusa. I barattoli esplosero in massa ricoprendo entrambi di vischiume polposo e luccicante. Per fortuna era mancino, pensò. 
   Lui si rialzò claudicando – un proiettile doveva avergli scheggiato una rotula – e puntò la 44 Magnum alla tempia del commesso, per metà dipinto di sangue. Cosa vuoi da me? Vuoi i soldi? Prendi i tuoi fottuti soldi e vattene! Ho bisogno di ghiaccio, te l’ho detto, e tu ce l’hai: mi hai mentito. Come? Ho assaggiato la tua lingua, ed era gelata; hai bevuto una birra poco prima che entrassi nello store, immagino tu nasconda un frigorifero funzionante da qualche parte; inoltre mi chiedo come faccia a muoversi questo ventilatore senza corrente elettrica. Elementare, Sherlock! Credi di farmi paura? Perché non mi spari e fine della storia? Perché ho bisogno di ghiaccio, e tu sai dove possiamo trovarlo.

Il Barone Inesistente

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