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L'Inesistente: gennaio 2013

17 gennaio 2013

Yukio Mishima - Confessioni di una maschera


Ora getto questa pietra contro l’albero che mi è di fronte: se lo tocco è segno di salvezza, se lo sbaglio è segno di dannazione... Mentre dicevo così getto la pietra con mano tremante e con un orribile battito del cuore, ma così felicemente che va a colpire il bel mezzo dell’albero... Da allora non ho più dubitato della mia salvezza.
J.-J. Rousseau, Confessioni

***

Non basta un singolo atto, semplice e ripetuto, come quello di Rousseau, che per trovare una conferma tangibile della propria fede cerca di colpire un tronco finché non lo becca: la maschera di Yukio Mishima si confessa attraverso boschi sognati a occhi aperti dove il sangue sgorga a fiotti. Difficile trovare un sasso per colpire un tronco qualsiasi e pulirsi la coscienza: ogni sasso è imbrattato di rosso; difficile trovare conferma di una qualsiasi fede: a ogni tronco è legato un San Sebastiano infilzato dalle frecce.
     L’immagine di giovanotti nudi e seviziati da lame di vario genere accompagna il protagonista fin dalla sua prima infanzia quando, alle prese con un libro illustrato, s’imbatte con delizia nelle vicende di principi trucidati, mentre prova un’acuta delusione nello scoprire che sotto le vesti di un cavaliere Giovanna d’Arco è effettivamente un’entità del sesso opposto: ‘Mi parve di stramazzare a terra per un pugno. La persona che nel mio pensiero era sempre stata lui diventava lei’; e lo accompagna nella crescita, quando scopre di avere tra le gambe un gingillo ‘indagatore’ capace di gonfiarsi ogni volta che gli occhi si soffermano su vignette non molto pacifiste, e quando insieme ai compagni di scuola si dedica assiduamente a una sorta di acchiappagingillo chiamato ‘il gioco della sporcizia’. Prima e seconda persona si rincorrono nella confessione del compimento mentale di erotici misfatti: ‘A quanti di quei giovani non hai strappato mentalmente i vestiti di dosso, nella giornata di ieri? La tua immaginazione somiglia al vascolo in cui l’erborista ripone gli esemplari delle piante: lì dentro raccogli i corpi nudi di tutti gli efebi che hai visto nel corso del giorno, e poi, la sera, a letto, scegli dalla tua raccolta l’olocausto rituale della tua cerimonia pagana, dando preferenza a quello che ha colpito particolarmente la tua fantasia’.   
     Le origini della maschera coincidono con l’emergere della necessità di coprire tutto questo agli occhi del mondo; ma la confessione non si fonda sullo sciorino fine a se stesso di visioni masturbatorie. La narrazione di eventi (passati, presenti, immaginati) è permeata da continue domande che il protagonista rivolge a se stesso, che l’autore rivolge a un pubblico (probabilmente) scandalizzato, non tanto con lo scopo di giustificarsi o di convincere, bensì al fine di mettere in dubbio ogni possibile soluzione del problema, denudandone ogni incognita servendo il dubbio nella sua crudezza, come una porzione di sashimi appena tagliato. E sashimi in giapponese significa letteralmente ‘corpo infilzato’. Come quello di San Sebastiano.
     La risultante di tutti gli interrogativi non poco nevrotici tracciati nel piano è una densa lettera aperta sul significato dell’amore, scritta dalla mano di un orientale che dimostra di conoscere bene l’Occidente: ‘Nelle xilografie del periodo Genroku capita spesso di riscontrare una somiglianza sorprendente tra i lineamenti d’una coppia di amanti, con poco o nulla che consenta di distinguere l’uomo dalla donna. L’idea universale del bello nella scultura greca si avvicina parimenti a una stretta analogia fra il maschio e la femmina. Non potrebbe consistere in ciò uno dei segreti dell’amore? Non potrebbe darsi che lungo i riposti meandri dell’amore circolasse un anelito irrealizzabile, quanto dell’uomo quanto della donna, a diventare l’esatta immagine l’uno dell’altro? Non potrebbe darsi che questo anelito li spingesse sempre più avanti, sfociando alla fine in una tragica reazione, per effetto della quale si sforzassero entrambi di pervenire all’impossibile puntando verso l’estremo opposto?’. 
     Il protagonista fin da piccolo è di salute cagionevole. Si capisce che è pallido, scarno; che poche volte ha visto il Sole. Una figura insana solo a vederla. Uno scialbo topo da biblioteca. Un futuro impiegato dello Stato al cui interno accadono cose che è meglio nascondere. Qui subentra la maschera, un velo intessuto quotidianamente con perle di bigiotteria, così da apparire normali all’esterno, alla gente che cammina fuori. Ma l’ossessione della normalità è un oceano piatto sotto al quale veleggiano tsunami, e sembra impossibile scegliere tra la bellezza levigata del primo e quella incessantemente increspata dei secondi. La coscienza si dispiega oscillando a perdifiato tra amore e morte, piacere e dolore, natura e guerra. Il primo boccone dell’età adulta è quello di un suro, pesce di acqua di mare; il secondo è il pugno di un compagno di scuola, sferrato sulla guancia, pieno di neve; il terzo è una distesa di ciliegi in fiore. Tutto sullo sfondo di un Giappone bellicoso, che costruisce aeroplani Modello Zero destinati a piombare kamikaze su navi nemiche, e che si prepara tragicamente alla folle rappresaglia di Hiroshima e Nagasaki. All’odore di pesce, di neve e di fiore di ciliegio si mescola quello di ingranaggi, di pelle rancida, di lacrime versate. Il sacrificio di numerose vite attorno a sé non impedisce però il desiderio di annullare la propria. La bellezza non salva. Neanche se assume la forma di una vergine ubbidiente al minimo gesto: i cavalloni sono sempre in agguato, e Sodoma lustra gli attrezzi del suo gioco sotto la loro ombra. La maschera si sgretola.
     Mishima ha scritto questo libro a ventiquattro anni, nel 1949, mentre la traduzione italiana, dall’americano, è disponibile solo dal 1969, a un anno dal seppoku in diretta tv (25 novembre 1970), suicidio rituale premeditato dall’autore secondo la tradizione autoinfilzante dei samurai (meglio conosciuto in Occidente come harakiri). Il libro, nonostante le inevitabili aporie linguistiche rispetto all’originale, è considerato un classico della letteratura giapponese moderna e mantiene una potente attualità anche per il lettore occidentale, non tanto per i suoi contenuti quanto per come essi vengono esposti, ossia per lo stile: quasi barocco in alcune descrizioni, ma senza fronzoli né parafrasi quando si tratta di andare a scandagliare i ‘moti dell’animo’. 
     Moravia definì Mishima un ‘conservatore decadente’, e aveva le sue ragioni: il decadentismo si può notare, ad esempio, nel modo in cui l’autore (in vita) fu ossessionato dalla morte; il conservatorismo nella sua aderenza al valore simbolico delle tradizioni giapponesi. Tuttavia, il giudizio di Moravia si rivela riduttivo: leggendo le Confessioni di una maschera anche il palato meno abituato e meno sensibile non può non percepire un certo sapore rivoluzionario.    

Il Barone Inesistente

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08 gennaio 2013

Stefan Zweig - Bruciante segreto


Remember when you were small
How people seemed so tall
Always had their way
Remember your ma and pa
Just wishing for movie stardom
Always, Always playing a part
If you ever feel sad
And the whole world is driving you mad
Remember the thief of your rainbow.

John Lennon, Remember

***

I ricordi si affastellano uno ad uno dentro di noi come in un mazzo di chiavi. Alcuni di essi fanno affiorare un sorriso, suscitano un guizzo luminoso negli occhi, rievocano piacevoli sensazioni puntiformi legate a immagini ancora intrise di calore. Tuttavia, ricordare può annoverarsi tra le attività più pericolose del cervello, perché di ogni singola chiave non è possibile fare una copia, né è possibile modificarne la forma, né è possibile distruggerla. Il soggetto che ricorda, infatti, oltre a ritrovare chiavi che aprono antiche porte di giardini in fiore, può anche essere meno fortunato. Non tutte le chiavi sono felici: sul muro della nostra memoria si possono anche ammirare, incastonati, fossili di mostruosi pesci estinti. Alcune chiavi, insomma, aprono porte – segrete – che avrebbero potuto o dovuto rimanere chiuse. Alcune chiavi possono rubarci arcobaleni; e questo breve romanzo di Stefan Zweig lo dimostra.
     La narrazione si fonda sul topos della vacanza. Arriva un giovane barone, che si distingue per l’abbigliamento di buona fattura e per una elasticità naturale del passo; precedendo gli altri, prende una carrozzella alla volta dell’albergo. Scorre con una certa delusione il registro degli ospiti, ma ha le idee chiare: ‘Mi chiedo che cosa ci faccio qui… Starmene da solo in montagna, senza compagnia, è ancor peggio che in ufficio. Evidentemente sono arrivato troppo presto o troppo tardi. Non ho mai fortuna con le mie vacanze. Non c’è neppure un nome conosciuto fra tutta questa gente. Ci fosse almeno qualche donna, un piccolo flirt, magari anche innocuo, tanto per non trascorrere in modo troppo triste la settimana’. Aggirandosi per la hall nota però una donna che legge con aria annoiata delle riviste con un bambino seduto vicino, pallido sui dodici anni, dai neri occhi inquieti. Allora per il barone inizia il gioco. Già la prima sera a cena getta occhiate di falco alla sua preda, ma non riesce a ghermirla come vorrebbe. Lei è schiva e fa di tutto per sfuggire ai suoi sguardi roventi. Così è il bambino, Edgar, che diventa l’esca. 
     Zweig descrive con sorprendente sensibilità lo stato d’animo del bambino, che lotta con il proprio senso di inadeguatezza, con la voglia insopprimibile di assorbire attenzione e affetto da coloro che abitano il mondo degli adulti. È un’analisi dettagliatissima quella dell’autore, che mette a nudo tutte le sfumature di un momento esistenziale attraversato da tutti (ma che pochi saprebbero descrivere con adeguata finezza): la preadolescenza, stadio liminare tra il mondo dell’infanzia e il mondo degli adulti. 
     Un giorno, quando sta accarezzando le froge di un cavallo al maniero, respinto perfino dallo stalliere che non lo vuole tra i piedi… Ecco il barone: ‘Ti piace stare qui?’… Edgar si illumina come una lampadina: non gli pare il vero che un adulto gli dia retta e che addirittura sia interessato alle sue opinioni. Nasce in breve tempo un’amicizia fittizia. Il barone riesce a sedersi allo stesso tavolo dove siedono Edgar e sua madre; dal bambino cerca di cavare tutte le informazioni a lui necessarie per affondare il colpo, e nel frattempo dà spago al suo estro di affabulatore: dice di essere stato in India, di aver visto gli elefanti e le tigri… E il bambino lo guarda con gli occhi di un innamorato: per lui si butterebbe nel fuoco.
    A poco a poco, tuttavia, il barone si stanca del bambino, che gli va appresso come se fosse mummificato a una sua gamba con giri e giri di nastro adesivo, e comincia ad allontanarlo. Edgar non vive bene questo allontanamento e girovaga per l’albergo con i lucciconi agli occhi, sperando che lui gli si pari davanti all’improvviso: per abbracciarlo o per tirargli un pugno, per dirgli qualcosa o, semplicemente, per godere della sua apparizione. Mentre il barone si allontana da Edgar, si avvicina alla madre, e la maschera di quest’ultima – la maschera di intangibile madame ebrea –  inizia a scricchiolare. I due si incontrano per passeggiate solitarie, fanno andare a letto presto il bambino per restare soli… Finché una notte Edgar li scorge dalla finestra dirigersi insieme verso il bosco. Mosso da un odio indicibile per quei mascalzoni, il piccolo organizza un’istantanea fuga attraverso la finestra, e li segue tra le fresche frasche. Ma a un certo punto la madre capisce che qualcuno li sta pedinando, non si sente a suo agio, e decide di tornare indietro. Edgar scappa: ‘Corse nel bosco, a stento riuscì a riparare nel buio, dove nessuno poteva vederlo, e lì trovò sfogo, in un fiume di calde lacrime. Bugiardi, canaglie, farabutti: dovette urlare queste parole a pieni polmoni, altrimenti soffocava. La rabbia, l’insofferenza, l’irritazione, la curiosità, l’impotenza e il tradimento degli ultimi giorni, che aveva represso nella sua lotta infantile, nella sua presunzione di essere ormai adulto, a quel punto gli dilaniarono il petto e divennero lacrime. Era l’ultimo pianto della sua infanzia’. 
     In albergo non riesce a trattenersi e, in preda a una furia canina, si avventa sul barone in corridoio, mordendolo ad una mano. Il sangue ancora scintilla sui suoi dentini quando la madre, in preda ad una serie di emozioni contrastanti (vergogna per essere stata scoperta, rabbia nei confronti di quel’impiastro che le ha negato il piacere tanto pregustato, paura di essere scoperta dal marito), lo rimprovera e gli impone di scrivere al barone una lettera di scuse. Edgar insiste sul fatto che lui l’aveva afferrata e che lei aveva gridato aiuto. Lei ride seccamente: ‘te lo sei sognato’. Questa menzogna il ragazzino non la digerisce, e lo tormenta fino a indurlo a schiaffeggiare la madre e a fuggire via, stralunato.  
     Edgar prende il treno e va dalla nonna (teme il confronto diretto col padre). E dopo un po’ si ritrova tutti i parenti attorno: ‘Ebbene, hai perso la lingua? Che cosa è successo? Dillo pure! Qualcosa non ti andava? Qualcuno ti ha forse fatto un torto?. Edgar esitava. Il ricordo riaccendeva in lui la rabbia, stava già per pronunciare un’accusa. Quando vide – e il cuore gli si arrestò – sua madre fare uno strano gesto alle spalle del padre. Un gesto che lì per lì non capiva. Ma poi lei lo guardò con occhi imploranti. E silenziosamente si portò alle labbra un dito, facendo segno di tacere’.
     Edgar, per la prima volta, decide di non dire la verità. Accetta il gesto della madre. Accetta la sua falsità e lei lo ripaga con un sorriso di gratitudine… ‘Poi il bambino si addormentò, ed ebbe inizio il sogno della sua vita, più profondo’.
     Con questa contraddizione finale – Edgar aveva sempre rifiutato la non verità e ora, invece, l’accoglie – Zweig descrive in modo leggero eppure magnificamente sofisticato il passaggio all’età adulta. Il sogno, adesso, è più profondo. Pesa di più. È il sogno intrecciato delle bugie, dei sotterfugi, dei silenzi parlanti degli adulti. Il bruciante segreto non è stato secreto. È rimasto lì, si è congelato, si è evoluto in una nuova forma di consapevolezza di sé e del mondo; è diventato il mostruoso fossile di un pesce estinto. E il ricordo di quell'istante in cui lui ha accettato di coprire la verità con il silenzio, il ricordo di quel dito materno sulle labbra, è per Edgar la chiave di una porta che prima o poi doveva essere aperta. Quel dito, però, gli ha rubato il suo arcobaleno per sempre.

Il Barone Inesistente

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06 gennaio 2013

Agota Kristov - Ieri


The wind in my heart
The wind in my heart
The dust in my head
The dust in my head
The wind in my heart
The wind in my heart
(Come to) Drive them away
Drive them away.

Peter Gabriel, Listenig Wind

***

Tutto in questo romanzo si muove sulle note del vento e della sabbia. La lettura è veloce come il colpo di un pugile sulla fronte, che penetra nella testa rilasciando un barile di sabbia nascosto nel guantone. Il testo è una musica dallo stile visionario ma incredibilmente realistico, tanto da poter essere definito pulp in alcune scene. È l’ultimo libro di una – purtroppo – misconosciuta autrice ungherese dalla vita tormentata, emigrata in Francia per via della guerra e scomparsa da poco: Agota Kristov (nota forse ad alcuni per il capolavoro La trilogia della città di K.).
     L’autrice racconta la bieca storia di un uomo che lavora come operaio in una fabbrica di orologi. Non è un caso si tratti di una fabbrica di orologi (poteva trattarsi benissimo di un un’industria d’altro tipo): il tempo è un tema centrale della narrazione, che fa perno essenzialmente sull’attesa di Line, l’amata di Sandor, il protagonista. Line è la sua Beatrice, il suo ‘giovenile errore’, la sua spasmodica attesa, il suo incubo e il suo eden quotidiano. Una tigre di carta. Line è lui stesso. Line è la scrittura stessa: ‘Line, ti amo. Ti amo veramente, Line, ma non ho tempo per pensarci, ci sono tante cose alle quali devo pensare, per esempio questo vento, adesso dovrei uscire e camminare nel vento. Non insieme a te, Line, non ti arrabbiare. Camminare nel vento è una cosa che non si può fare altro che da soli, perché c’è una tigre e un pianoforte la cui musica uccide gli uccelli, e la paura può essere dissolta solo dal vento, si sa, io è tanto che lo so’.
     Sandor scrive per necessità, in preda a un sortilegio oscuro. Una tigre entra nella sua casa e gli dice: ‘Musica! Suoni qualcosa. Al violino o al piano. Meglio al piano. Suoni!’… ‘Non sono capace, non ho mai suonato il piano in tutta la mia vita, non ho nemmeno un pianoforte, non l’ho mai avuto’ ribatte lui ‘In tutta la sua vita? Che sciocchezza! Vada alla finestra e suoni’. Sandor va alla finestra e vede un bosco: uccelli si riuniscono sui rami per ascoltare la sua musica. Come gli uccelli di Hitchcock. Le piccole teste inclinate e gli occhi fissi che guardano da qualche parte attraverso di lui. Un uccello morto cade da un ramo. La musica cessa. Lui si volta, la tigre sorride: ‘Per oggi basta… Dovrebbe esercitarsi più spesso’… ‘Sì, glielo prometto, mi eserciterò. Ma attendo visite, lei capisce, per favore. Essi, loro, potrebbero trovare strana la sua presenza qui, a casa mia’… ‘Naturalmente’ fa la tigre sbadigliando, e se ne va via a passi felpati. 
     Sandor nasce in ‘un villaggio senza nome, in una nazione senza importanza’. Sua madre, Esther, è la ladra, la mendicante, la puttana del villaggio. E lui, bambino, se ne sta nel cortile giocando con la terra argillosa: la plasma formando immensi falli, seni e natiche; scolpisce anche il corpo di sua madre, vi affonda le piccole dita per scavare dei buchi: la bocca, il naso, gli occhi, le orecchie, la vagina, l’ano, l’ombelico. Sua madre è ‘piena di buchi’, come la casa di Sandor, come i suoi vestiti, le sue scarpe: ‘tappavo i buchi delle scarpe col fango’.
     La madre, oltre ai soliti contadini che in cambio del suo corpo ammazzano un maiale riservandole ‘le parti peggiori, le trippe e non so che altro’, inizia a portarsi a letto anche il maestro del villaggio: ‘quell’uomo, quello che mi carezzava i capelli, l’ho ritrovato a scuola’. Tale frequentazione segna la storia di Sandor, che ora ha vestiti e cibo buono e anche scarpe, quaderni, gomme, carta e matite. Il piccolo si rivela un alunno brillante e il maestro si prende cura di lui come se fosse suo figlio, assicurando che gli avrebbe fatto proseguire gli studi altrove per diventare medico, avvocato o ingegnere. Ma nel cuore di Sandor comincia a divampare odio per quell’uomo che pretende di essere suo padre e che gli chiede di abbandonare sua madre: ‘Non avevo che un desiderio: partire, andare, morire, era uguale. Volevo allontanarmi, non tornare più, scomparire, dissolvermi nel bosco, nelle nuvole, non ricordare più, dimenticare, dimenticare’. Così, prende dal cassetto ‘il coltello più grande, il coltello per tagliare la carne’, entra nella stanza dove i due consumano l’amplesso e affonda la lama nella schiena dell’uomo sotto il chiarore della luna piena. Da qui la fuga: Sandor scappa, passa il confine e, dopo una serie di peripezie, trova impiego nella fabbrica di orologi.
     Ora comincia la sua ‘corsa idiota’: ‘Mi alzo alle cinque di mattina, mi lavo, mi faccio la barba, mi preparo un caffè e vado, corro fino alla piazza Principale, salgo sul bus, chiudo gli occhi, e tutto l’orrore della mia vita presente mi salta al collo’. Il lavoro dà pochi spiccioli e non è particolarmente divertente. Sandor vede ancora tanti buchi, ma nessun orologio con le lancette che vanno in senso orario: ‘La fabbrica produce pezzi di ricambio e pezzi semilavorati per altri stabilimenti. Nessuno tra noi potrebbe assemblare un orologio completo. Quanto a me, con il mio macchinario faccio un buco nello stesso pezzo da dieci anni’. Il tempo sembra essersi fermato; sembra non esistere. È una scelta narrativa dell’autrice: la vita scorre come un nastro pieno di buchi, senza passato e senza futuro. E il presente si può riassumere nel vuoto, in un singolo buco. Tornato nel suo buco (un mini appartamento sciatto e sporco che pare vivere di vita propria), Sandor scrive, sempre a matita, su fogli che spesso distrugge. E aspetta: Line può arrivare da un momento all’altro.
     A un certo punto Line compare: sale, al primo villaggio, sullo stesso bus di Sandor. O meglio, entra in scena una donna che a Sandor ricorda una compagna di banco della sua infanzia. Ad ogni modo, quella donna diventa Line in carne ed ossa. Si è trasferita con il marito, un biologo, che ha avuto un incarico a tempo indeterminato in quella località. Lui la insegue in bicicletta e la scruta con il binocolo attraverso la finestra della sua casa borghese e felice: ha una bambina. Il fuoco della gelosia divampa in Sandor che si avvicina sempre di più a Line. I due finiscono per diventare amanti; e basta un abbraccio, un bacio in un viottolo zeppo di neve perché lui abbia il fiotto rovente di un’eiaculazione. Lei ripulisce il suo buco, si prende cura di tutto ciò che lui trascurava; e Sandor sogna, non riesce a credere che il suo personaggio inventato, sia nelle sue mani, che tutte le parole scritte a matita sotto l’incalzante monito della tigre siano finalmente tra le sue braccia. 
     Tuttavia, la scrittura non si può dominare del tutto, non si può sposare: la scrittura non è un trastullo borghese, ma un vento ribelle infestato di uccelli feriti nel quale si può camminare unicamente da soli. Sandor non può diventare marito. Questo sembra dirci l’autrice: ‘bisogna diventare assolutamente niente per essere scrittore’. Lo scrittore rischia perennemente un cortocircuito (e Sandor ne rimane vittima). Scrivere è un atto solitario; è un atto di rinuncia. È un atto che sorvola la realtà, che non si lega alla realtà, anche se nella realtà trova la sua origine. Line, infatti, decide di andarsene con il marito, che ha portato a termine il suo incarico: ha una bambina, lei non può vivere in un buco, lei non può stare con lui anche se lo ama per ovvie ragioni.
     Sandor parla con un uccello ferito, che gli dice: ‘Io conosco campi meravigliosi. Se tu potessi raggiungerli, ignoreresti il tuo cuore. Là non ci sono fiori, l’erba ondeggia come una bandiera, quei campi felici sono senza limite. Non avresti che da dire: terra di pace, vorrei riposarmi’… ‘Sì lo so’ ribatte lui ‘ma passerà un’ombra, un dipinto, una poesia, un’aria’… ‘Allora vai sulla montagna’ dice l’uccello ‘e lasciami morire. Non posso sopportare la tua tristezza. Tristezza dei gesti, delle cascate color cenere, tristezza dell’alba che si muove lungo i campi fangosi’. Sandor, partita Line, si sposa con una bionda qualunque e sforna due figli: ‘La mattina li lasciamo all’asilo nido. Li riprendiamo la sera. Mia moglie, Yolande, è una madre esemplare. Lavoro sempre alla fabbrica di orologi. Al primo villaggio nessuno sale sul bus. Non scrivo più’.  
     Il libro di Agota Kristov è un piccolo capolavoro poetico. Una metascrittura in versi in cui la scrittura non si rivela uno strumento per comunicare, ma un impulso drammaticamente organico, seminvolontario e autodistruttivo, volto a disperdere il sé per dimenticare la paura di esistere, per trovare una vaga forma tangibile dei propri desideri impossibili nel ritmo del pianoforte e della tigre, nella musica del vento.  

Il Barone Inesistente

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04 gennaio 2013

Jeffrey Eugenides - La trama del matrimonio


Immagina un capitano sulla sua nave nel momento in cui deve dar battaglia; forse egli potrà dire, bisogna fare questo o quello; ma se non è un capitano mediocre, nello stesso tempo si renderà conto che la nave, mentre egli non ha ancora deciso, avanza con la solita velocità, e che così è solo un istante quello in cui sia indifferente se egli faccia questo o quello.  Così anche l’uomo, se dimentica di calcolare questa velocità, alla fine giunge un momento in cui non ha più la libertà della scelta, non perché ha scelto, ma perché non l’ha fatto, il che si può anche esprimere così: perché gli altri hanno scelto per lui, perché ha perso se stesso

Søren Kierkegaard, Aut-Aut

***

Alcune scelte rimangono sospese nei nostri oceani, altre sfidano la corrente o la seguono a colpi vibranti di pinne, altre ancora rimangono aggrappate al fondale come in attesa di una metamorfosi o, semplicemente, prigioniere del nulla. Ed è in questa zona che si compie la trasformazione. Mostri e stelle marine. Ognuno di noi è portato a scegliere in quale entità subacquea convertirsi: è una decisione istantanea che, più o meno consciamente, ci porta a diventare nel tempo.
     La vicenda del romanzo di Jeffrey Eugenides, ambientato nell’America dei primi anni Ottanta, verte su tre personaggi principali: Madeleine Hanna, Leonard Bankhead e Mitchell Grammaticus. Le loro vie si intrecciano sempre sull’orlo di una scelta da prendere, e nell’ultima pagina si legano definitivamente (?) in un malinconico nodo. 
     Madeleine è una tipica ragazza americana, di famiglia ricca, che ama essere desiderata e che ha paura di desiderare, perciò non può fare a meno di farlo. Si veste senza troppe scollature, eppure molti la definiscono sexy, la più ambita del college; ha deciso di studiare letteratura perché le piace leggere, tutto qui. Un giorno si imbatte in un libro che inspiegabilmente non aveva letto: i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes, testo considerato cool e particolarmente in voga tra gli studenti della Brown University. Così Madeleine decide di iscriversi a un corso di semiologia per pochi eletti. Il primo giorno si siede accanto a lei un tipo misterioso, una specie di ibrido tra un San Bernardo e un Brontosauro che mastica tabacco Skoal mentolato, sputando ogni tanto nel contenitore che si era portato dietro per sorseggiare caffè. Studia biologia, la filosofia è solo un interesse secondario. Una volta lei lo becca tra gli scaffali della biblioteca alle prese con una ragazza ocheggiante: ‘Prova a pensarci dal punto di vista della mosca’… ‘Ok’, dice l’altra starnazzando… ‘Dal loro punto di vista noi ci muoviamo al rallentatore. Vedono l’acchiappamosche da mille chilometri. Le mosche fanno: svegliami quando quel coso si avvicina’. La teoria di Leonard sulla mosca domestica è collegata alla sua teoria per cui invecchiando il tempo sembra passare più in fretta: ‘È proporzionale: a cinque anni sei vivo da un paio di migliaia di giorni. Ma quando arrivi ai cinquanta ne hai vissuti circa ventimila. Perciò quando hai cinque anni un giorno sembra più lungo perché è una percentuale maggiore del totale’. Ecco come Leonard seduceva; le sue idee strampalate non erano mai noiose e con lui si poteva parlare di ogni cosa trovando in ogni cosa un dettaglio interessante. Ad esempio: ‘Lo sai come fanno i musulmani ad avere più donne? Per scaricarne una basta ripetere tre volte io divorzio da te, io divorzio da te, io divorzio da te!’
     Madeleine – anche se l’autore, raffinatamente, non lo dice in modo esplicito – rimane subito affascinata da Leonard Bankhead e nel giro di poco si ritrova davanti a lui in un locale. Lui è l’esatto contrario dell’uomo che avrebbe dovuto incontrare e sposare sulla falsa riga dei suoi adorati romanzi vittoriani: cresciuto in una famiglia di alcolizzati, si presenta con una bandana azzurra sulle spalle e una folta chioma tenuta a coda di cavallo. E poi l’odore di quel tabacco è davvero insopportabile, e con un bacio lei percepisce un forte retrogusto metallico. Leonard ordina una porzione di torta di mele con una fetta di cheddar sopra, e si dilunga in una incredibile filippica sul mega sbaglio di lei, che non ha mai provato un binomio talmente delizioso. Madeleine si scompone un po’, ma ormai il suo Aut-Aut non ha più senso di essere: le ragioni pascaliane hanno vinto, e il cuore comincia a battere, e non si sa bene perché. Lei cerca di razionalizzare, e lo fa servendosi del libro di Barthes come un feticcio: lì l’amore viene decostruito passo passo, come il nastro di una cassetta che si riavvolge, cancellando ogni tentennamento dello spirito, l’angoscia dell’attesa, la gelosia, il desiderio inappagato. Si informa su Leonard tramite le sue coinquiline dalla lingua non corta, e viene a sapere che è un ‘genio’, uno ‘sciupafemmine’ e, in sostanza, un ‘pazzo’ capace di far baldoria tutta la notte e poi di chiudersi in casa per giorni senza fare niente, uno da cui stare alla larga, anche se si dimostra sempre simpatico e abile affabulatore. Inizia anche ad apparirgli un bel giovanotto, e una sera, dopo aver visto Amarcord, ci va a letto. Dopo tre settimane i due si separano perché lei gli dice ‘ti amo’ e lui, indicandogli un passo del libro di Barthes legge ‘la locuzione ti amo, una volta pronunciata, non ha più significato’: lei glielo scaglia sulla testa, si veste in fretta e furia ed esce sbattendo la porta (raccogliendo i Frammenti di un discorso amoroso con un gesto svelto e furtivo). 
     Arriva la cerimonia di laurea. Tutti in toga. Ma lui dov’è finito? Squilla il telefono: è per Madeleine. Si scopre che a Leonard dal secondo anno al College era stata diagnosticata una psicosi maniaco-depressiva. Aveva cominciato ad assumere dosi massicce di Litio, ma negli ultimi tempi aveva deciso di non prenderlo più; non usciva più di casa da quando si era lasciato con lei; chiamava tutti i numeri che aveva sulla rubrica trattenendo per ore orecchie che gradualmente avevano cominciato a tagliare corto o a non rispondere; sciorinava tutti i suoi problemi esistenziali, il fatto che non riuscisse a dormire, a preparare gli esami, il terrore di non laurearsi e di perdere la borsa di studio e, ultimamente, era paranoico e si inventava di volta in volta malattie di cui non capiva l’origine. 
     Originale è anche la figura di Mitchell. Personaggio hessiano: metà Narciso metà Boccadoro. Studia con passione e sucesso storia delle religioni e ha una certa propensione mistica; eppure si volta per strada non appena vede una bella passare. Il suo tutor lo convoca e gli propone di andare a Harvard: sarebbe disposto, in un caso come il suo, a firmare personalmente una lettera di presentazione. Tuttavia, a Mitchell non interessa la carriera accademica. La sua mente è totalmente ingombrata dall’idea di Madeleine, la sposa perfetta; e lui, d’altronde, sarebbe il marito perfetto: famiglia normale, inquieto ma senza eccessi, premuroso etc… Ma, si sa, non è l perfezione che fa innamorare: non è il ramo dritto, ma quello storto che sprigiona lo slancio poetico, la tensione oscura che si potrebbe definire amore. All’inizio del College si era accontentato di sdraiarsi per terra accanto al letto di Madeleine, nei pomeriggi in cui lei si sentiva abbastanza sola per farlo entrare. Chiacchieravano, e lui si voltava a pancia in giù per controllare le soventi erezioni spontanee. Madeleine si è messa con il suo acerrimo nemico, però. Allora Mitchell sceglie di partire con un suo amico in un lungo viaggio che lo porterà fino in India, alla casa di accoglienza di Madre Teresa. Nemmeno lì, però, scoprirà una prova concreta della propria fede in Dio. Da un punto di vista letterario, Mitchell è un personaggio collante: rappresenta l’equilibrio che, qualora si manifestasse, renderebbe impossibile l’unione tra gli altri due protagonisti. Alla fine, si riavvicina a Madeleine, le sta accanto, la sostiene in un momento di enorme difficoltà, ma proprio quando riesce ad ottenerla, lei si rivela come ramo dritto, non come ramo storto. 
    Madeleine, mentre Mitchell è in viaggio, è andata in Ospedale dal suo amato. I due si riconciliano e dopo un periodo limbico trascorso nel reparto di psichiatria, si trasferiscono a Pilgrim Lake, dove Leonard è stato assunto come assistente di laboratorio in un prestigioso centro di ricerca. Avevano già convissuto durante l’università, nel monolocale topaia di lui che lei, per vendetta, aveva ripulito da cima a fondo con suppellettili rosa shocking in attesa della sua dimissione. Qui però comincia a soffiare vento di matrimonio, e l’isola felice si rivela piuttosto un locus in-amoenus. A Leonard non piace il lavoro e il Litio lo costringe ad uno stile di vita che mal si concilia con quello di Madeleine, che sta aggiustando la tesi per fare l’application alla Columbia, e che vorrebbe uscire la sera, giocare a tennis, svagarsi un po’; mentre lui, come un Oblomov dagli occhi vitrei e il cervello altrove, sessualmente impotente e umiliato, preferisce cucinare pizza surgelata al microonde, piuttosto che lavarsi, radersi, vestirsi, e andare all’ottima mensa offerta dal centro di ricerca. 
     Passano i mesi e le cose sembrano cambiare: Leonard si è messo a fare sport, è dimagrito, ha ricominciato a leggere, il lavoro sembra pesargli di meno. Un giorno propone di andare a raccogliere ostriche, approfittando della bassa marea, e invita un sacco di gente per cena; un altro arriva a casa con sacchetti piene di caramelle colorate – ‘i colori dell’oceano’ – prende in braccio Madeleine, la porta a letto, e dopo il coito le chiede di sposarlo. Aut-Aut: ovviamente la risposta è sì.
     Luna di miele: destinazione Francia. Pare che niente non fili liscio: Leonard è più brillante che mai, si sbizzarrisce a letto con le sue fantasie, fa sentire Madeleine una vera principessa; e, forse, entrambi trovano finalmente un po’ di serenità. Questo nuovo contegno, però, è dovuto a esperimenti che Leonard fa sulla propria persona, diminuendo progressivamente la posologia del Litio. Una sera, infatti, lui è sempre allegro, ma ha un lampo strano negli occhi, ordina Champagne in camera (e a Leonard non piace lo Champagne), si ubriaca e prende le pillole dal bicchiere pieno di bollicine. In seguito sguscia via e va a giocare d’azzardo con degli imprenditori svizzeri conosciuti per caso alla reception dell’albergo. Madeleine, disperata, lo va a cercare al Casino di Montecarlo, e lo trova con una cappa nera che si era comprato spendendo una cifra irragionevole a Parigi, i capelli tirati indietro con la brillantina e una faccia incipriata da vampiro. Lui ha perso tutti i soldi, e sfugge all’amata volatilizzandosi col suo mantello. 
     Siamo all’epilogo. Dopo essere stato nuovamente ricoverato a Marsiglia, Leonard torna in America e va ad abitare con Madeleine nella casa dei suoi genitori. Per Madeleine è un periodo decisamente non roseo: lui resta sveglio fino a tardi vegetando davanti alla tv, e lei lo aspetta rannicchiata dalla sua parte. Il Litio ha ricominciato a fare effetto. Leonard è di nuovo ingrassato, sempre più taciturno e fuma sigari in continuazione. Madeleine è stata ammessa alla Columbia e vorrebbe trasferirsi a New York con Leonard, che però indossa sempre solo i soliti calzoncini neri sformati, si muove il meno possibile e soffre di attacchi di panico quando è in mezzo alla folla; inoltre il suo stato d’animo è doppiamente frustrato: vivere con i genitori di lei è una prospettiva non meno deprimente di vivere con lei in una casa a New York da mantenuto disoccupato. 
     Estate. Una mattina Madeleine riceve una chiamata da un’amica che si occupa di immobili e che le dice di aver trovato un appartamento eccezionale, da bloccare quel giorno stesso. Stranamente Leonard si convince e insieme prendono il treno per la Grande Mela. Gli sposi visitano l’appartamento, e lui alla fine cede e dice sì. I due si siedono in un bar ad aspettare l’amica che deve sbrigare in ufficio le pratiche burocratiche. Madeleine ordina una porzione di torta di mela con una fetta di cheddar sopra. Leonard non trattiene le lacrime: ‘non ricordavo più, è passato tanto tempo’. Firmato il contratto, l’amica invita gli sposi ad una festa lì vicino. Madeleine si trascina dietro Leonard e ritrova gli ex compagni del College. Sorride e beve, un po’ felice, nell’afa della casa dei suoi nuovi vicini; si sente anche un po’ arrivata, ancora desiderabile come a quei tempi, forse. Leonard si rifugia nella stanza da letto dove trova Mitchell. I due parlano di filosofia, di misticismo, con stima reciproca; e con un ardore improvviso Leonard si dice pronto per ‘il salto kierkegardiano’; e fugge ancora. Appena Madeleine se ne accorge lo insegue, va giù nella Tube, scavalca con eleganza e senza biglietto la transenna: teme il peggio. Aut-Aut. Il treno sta per arrivare, Leonard è girato di spalle. Lei arriva proprio quando le porte si stanno per richiudere, lui si gira e prima di sparire nella metro le grida: ‘io divorzio da te, io divorzio da te, io divorzio da te!’.
     La trama del matrimonio non è, banalmente, un romanzo sul matrimonio. Il matrimonio è l’espediente narrativo, ma il vero tema centrale è la solitudine. La solitudine come ricerca del senso; la solitudine come ricerca drammatica di uno scopo esistenziale soggettivo. La solitudine così come è vissuta da una ragazza romantica dell’alta borghesia americana; da un ragazzo introspettivo che cerca una forma di fede; da un ragazzo genialoide, gravemente depresso eppure violentemente attaccato alla vita. Eugenides decostruisce la decostruzione del romanzo classico con onestà nei confronti del lettore, nel suo stile acuto, bilanciando tristezza e ironia con tinte e odori a volte forti a volte tenui, scelti sempre con grande sensibilità artistica. Con questo romanzo l’autore restituisce al matrimonio e, soprattutto, alla folla di concetti e sentimenti che gli ruotano attorno, un ruolo estremamente originale nel panorama letterario contemporaneo.


Il Barone Inesistente

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