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L'Inesistente: agosto 2013

19 agosto 2013

Chuck Palahniuk – Soffocare


Inventio est excogitatio rerum verarum aut veri similium, quae causam probabilem reddant.

Marco Tullio Cicerone, De inventione

***

Alza un dito verso il soffitto coprendosi gli occhi con l’altra mano; poi lo fa precipitare verso il basso, verso l’elenco telefonico aperto sul tavolo. Ecco dove Victor Mancini sceglie di morire questa sera. La sua finzione non può ripetersi due volte nello stesso luogo. Lo show in cui simula il soffocamento non ammette repliche se non davanti a un pubblico sempre vergine, così ogni volta è costretto a programmare la sua morte in un posto diverso. Arrivato al ristorante, si siede e comincia a guardarsi attorno. A metà cena ingoierà un boccone troppo grosso, si alzerà barcollante, stringerà il collo paonazzo in attesa dell’inevitabile salvezza. Chi renderà schiavo della sua umiliazione, oggi? Poco importa chi sia, l’eroe. Certo, se gli capita ricco tanto meglio, ma i soldi non sono l’unico scopo della messinscena perché quella persona, da quel momento, diventerà per sempre dipendente da lui. Facendo sentire immortali gli altri, questi saranno pronti a fare salti mortali. Non gli manderanno solo biglietti d’auguri e assegni: lo adoreranno in quanto vulnerabile elargitore di scuse pronto all’uso, in quanto simbolo di una vittoria, di una proprietà virtuale, di un episodio che vale la buona azione di una vita.
     L'obiettivo principale del sessodipendente Victor è creare dipendenza negli altri. Soffocare è l’immagine di un ribaltamento di prospettiva, che implica l’accettazione dell’inferiorità della propria condizione di soffocante in vista dell’acquisizione del dominio sul non soffocante. La prospettiva si ribalta secondo un passaggio che ricorda la dialettica schiavo/padrone descritta da Hegel nella sua storia romanzata dello Spirito. Victor, soffocando, diventa una leggenda privata sul conto del non soffocante che è intervenuto per salvarlo, diventa l’azione complicante del suo percorso esistenziale, l’evento da cui non si può prescindere per dare un senso a ciò che appartiene logicamente al dopo, ossia alla dimensione di ciò che è accaduto o che accadrà in seguito a quell’evento.
     Il soffocante in questione trova la sua musa ispiratrice in una scimmia o, più precisamente, in una fotografia pubblicata su un sito porno che ritrae una scimmia scorticata dalla rogna (ma ancora viva) nell’atto di riempire di castagne il retto di un uomo piegato a novanta. L’uomo sorride, e in quel sorriso Victor scorge una dichiarazione di libertà, una possibilità di rivalsa nei confronti del mondo, attuabile dall’interno agendo nel mondo come ‘vittima aggressiva'. La scimmia-mondo mortifica l’uomo costringendolo a subire ciò che la sua stessa dipendenza lo porta a desiderare. Si tratta però di una costrizione voluta da parte di chi subisce; chi subisce, in questo caso, decide di subire le conseguenze della dipendenza, consegnando la fenomenologia della sua scelta alla potenziale eternità di un’istantanea; l’uomo svela la propria malattia in un incontro paradossale con il mondo, a sua volta malato (la scimmia ha la rogna), e se inizialmente sembra costituire il bersaglio della derisione (piegato a novanta con le castagne nel didietro), alla fine è lui a deridere il mondo, fissando lo spettatore con una luce di trionfo negli occhi, perché dimostra che è il mondo (da cui l’uomo si lascia penetrare) il primo a essere infettato dalla dipendenza ed è quindi possibile non soffrire anche nella malattia (forse, soprattutto nella malattia): ‘La tortura è vera tortura e l’umiliazione vera umiliazione soltanto quando si sceglie di soffrire’.
     La dipendenza emerge come fulcro tematico della narrazione, sviluppandosi in un arco temporale che idealmente si estende dal 1734 al 2556. Dipendenza dal sesso, ma non solo. Dipendenza dalla morte, dalla vita e dagli altri. Dipendenza come malattia, come paranoia, come follia. Dipendenza come illusione di libertà. Dipendenza, più in generale, da quelle idee e da quelle cose prodotte spontaneamente dall’inventio, la facoltà immaginativa grazie alla quale il soggetto scopre gli elementi e i nessi più adatti al suo discorso (qui inteso anche come pensiero, come capacità di interagire con il mondo e di costruire proprie mappe simboliche del mondo).
     Il discorso di Victor dà l’impressione di raggiungere una specie di sintesi quando lui comincia a credere di essere la reincarnazione di Gesù Cristo. Non è più solo il soffocante che viene salvato: è colui che è in grado di salvare il non soffocante soffocando, attraverso il martirio di San Sé Stesso. Basta sesso: l’idea di essere il figlio di Dio offre lo spazio per una nuova dipendenza. Victor può diventare il contenitore di un qualsiasi significato fondamentale per chiunque. Può essere un ologramma salvifico che muta sembianza a seconda dello sguardo che gli viene rivolto. Può essere un figlio elevato all’ennesima potenza. L’ha convinto la dottoressa Paige Marshall, che ha letto il diario di sua madre, Ida Mancini, ricoverata in una clinica per sole donne affette dalla sindrome del jamais vu, ovvero da amnesia e altre disfunzioni croniche del sistema nervoso. Un braccialetto attiva dei dispositivi magnetici che blindano porte e finestre se ci si avvicina troppo, impedendo alle pazienti di darsi alla fuga. È fisicamente impossibile da togliere. La clinica la paga Victor con i soldi che riesce a mettere insieme grazie alle sue performance da soffocante e al misero stipendio maturato lavorando come servo irlandese nel 1753, presso un museo a cielo aperto affollato da galline storpie e mutilate che avrebbe l’intento di ricostruire lo stile di vita dell’America coloniale. In gioventù la madre – entrata in possesso di un’ambitissima reliquia: il prepuzio di Gesù Cristo – si sarebbe sollazzata facendo esperimenti sulla fertilità femminile. Il diario, probabilmente scritto in italiano (Victor non è in grado di leggerlo, la dottoressa Paige Marshall dice di essersi istruita in merito), dovrebbe contenere tutta la verità relativamente al passato di lui.
     Durante la sua ultima visita alla madre (che rivela di non essere sua madre) Victor nota un braccialetto difficile da confondere con altri al polso della dottoressa Paige Marshall. Lei ammette di essere una paziente, ma anche un vero medico: una genetista inviata dal 2556 per farsi mettere incinta da un esemplare maschio del passato al fine di curare con le cellule staminali del feto un’epidemia del suo presente dove presto (nel giro di poche ore) sarebbe dovuta tornare, se pur a pancia vuota.
     Ricevuta questa notizia, assistiamo a una rapidissima degenerazione dell’inventio di Victor, ormai in tilt. Portato in commissariato per via di un’accusa di stupro, cerca di soffocarsi sul serio con il tappo di una bottiglia di Ketchup e, conseguentemente alla contrazione provocatagli dai poliziotti per farglielo sputare, libera in un sol botto gli escrementi che aveva accumulato da tempo, comprese le palline di plastica rossa infilategli nel retto da un’ex compagna di giochi, causa dell’occlusione intestinale. Quelle palline sono il simbolo di un fallimento. Non hanno niente a che vedere con le castagne dell’uomo che si fa riempire dalla scimmia. Vince la malattia, o meglio, l’impossibilità della disintossicazione. Victor inizia il suo delirio. Ciò che racconta è ora estremamente surreale. Le frasi sono scollegate. Non si capisce cosa stia di fatto succedendo. Nelle ultime cinque pagine il discorso soffoca, precipitando nel nulla.
     Soffocare è un romanzo che implode retoricamente su se stesso. Chuck Palahniuk scrive alternando capitoli in prima persona a capitoli in terza persona. In entrambi i casi si capisce che è Victor la voce narrante. Dunque dovrebbe essere lui il garante della veridicità del racconto. Eppure, nelle ultime cinque pagine, tutto viene messo in discussione, e il confine tra verità e finzione si cancella. Victor delira, il romanzo va in cortocircuito. Non è più chiaro, neanche lontanamente, cosa sia capitato davvero e cosa per finta. Nell’ultimo capitolo, attorno all’edificio di Danny – l’amico di Victor che da sessodipendente è diventato sassodipendente, convertendosi dalla masturbazione compulsiva alla raccolta quotidiana di pietre sparse ovunque per la costruzione di non si sa bene cosa – si radunano i personaggi. Tra di loro appare anche la dottoressa Paige Marshall, la quale confida a Victor: ‘Come vedi, sono ancora qui […] Perciò mi sa che sono pazza’. E viene da chiedersi: 1) come fa ad essere lì e ad avere ancora il braccialetto al polso?; 2) perché Victor non si è accorto della presenza del braccialetto quando lei, nuda sull’altare della chiesa, gli aveva chiesto di metterla incinta? 3) Victor ha vissuto tutto ciò che ci ha raccontato o l’ha semplicemente immaginato?
     Per rispondere a queste domande è necessario ammettere o che Palahniuk ci abbia preso in giro, tirando via la fine perché si era stufato di scrivere, o che Victor ci abbia mentito. Una delle due, altrimenti i conti non tornano. Se l’autore ha voluto fare il furbo, non possiamo saperlo. È un’opzione da valutare, ma anche da scartare se non si vuole considerare Palahniuk uno sciatto o uno sprovveduto. Quello che sappiamo è che così, con queste incongruenze, il romanzo formalmente si affloscia, lo scheletro narrativo crolla, come crolla l’edificio di Danny nell’ultimo capitolo.
    L’implosione finale del romanzo è un gioco d’artificio, un’operazione retorica con la quale Palahniuk ha voluto metterci in guardia: non Victor Mancini, ma l’inventio in sé è protagonista di Soffocare. E l’inventio, non bisogna scordarselo, è la capacità di trovare cose vere o simili al vero (quindi anche non del tutto vere o magari false) che siano utili al discorso. Perciò, i personaggi (dottoressa Paige Marshall inclusa) potrebbero essere estroflessioni dell’inventio di Victor, il quale potrebbe essere matto come un cavallo già in partenza; potrebbe averci raccontato tutto dal lettino di un ospedale psichiatrico, con un braccialetto blocca uscite al polso; potrebbe essere un cervello in una vasca da bagno (e un riferimento esplicito a questa eventualità si trova nel romanzo stesso). Insomma, Victor Mancini ci ha mentito.

Il Barone Inesistente

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14 agosto 2013

Amos Oz – La scatola nera


I limiti del mio linguaggio significano i limiti del mio mondo.

Ludwig Wittgenstein

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Ormai non siamo più abituati a scrivere lettere. Usiamo altri strumenti, copiosamente elargiti dalla tecnologia per aiutarci, per liberarci dall’inutile schiavitù di pensieri troppo arguti, per semplificarci la vita. Usiamo le email (quasi solo per lavoro o per ricevere imperdibili offerte commerciali), gli sms (ma ormai nemmeno quelli); soprattutto Facebook, WhatsApp o Twitter, con i suoi cilestrini volatili virtuali, che sembrano goccioloni di Valium solidificati in stampini da appendere su alberi di Natale in pura plastica Ikea. Questi uccellini sono gli eredi dei piccioni viaggiatori, ma non respirano, e non devastano le terrazze con i loro escrementi. Finalmente ci siamo evoluti. La nostra vita si è semplificata. E nel giro di qualche anno i Google Glass ci diranno perfino cosa è giusto vedere, al momento giusto e nel posto giusto, e le nostre sinapsi potranno eludere gli oscuri tunnel che conducono alle idee, e i nostri occhi galleggeranno in rassicuranti caverne di vetro senza perdere tempo. Il Messia è giunto. Fantastico.
     Però, sì, c’è un però. Semplificare non vuol dire impoverire. Accelerare non vuol dire arrivare primi. La comunicazione è diventata il Dietor da far scivolare distrattamente nel caffè la mattina, prima di fuggire verso improrogabili impegni. In America, in qualsiasi stato andiate, troverete la stessa tipologia di bar e una similissima, transoceanica, specie di Dietor ad attendervi al bancone. Tracce radioattive di un Occidente che pensa il meno possibile, scrive tanto e legge poco. 
     La comunicazione, su scala mondiale, è diventata cibo per astronauti; per astronauti dal sorriso troppo largo volteggianti in navicelle spaziali che difficilmente cambiano direzione, tanto che non c’è neanche bisogno di premere un pulsante. La comunicazione si è liofilizzata perdendo colore e sapore; da nutrimento è diventata condimento, spesso superfluo se non fastidioso. Se si può parlare di evoluzione tecnologica, si può anche parlare di involuzione del linguaggio. Tutto, o quasi, si riduce ad un CMQ TNX FYI BRB TVB; o, nel migliore dei casi, a un sempre suggestivo SMILE. Anche se c’è poco da (sor)ridere. Davvero poco. Se i nostri phone sono smart, noi siamo indecentemente poveri. Povera gente. E non la Povera gente di Dostoevskij.
     Amos Oz pubblica il suo libro nel 1987, più di un secolo dopo l'uscita di quello del grande scrittore russo. A lui non si ispira, non c’è legame tra le due opere se non il denominatore comune dato dal genere epistolare. Come Dostoevskij, infatti, Oz scrive un libro di lettere (intervallato da alcuni telegrammi). Lo stile, certo, è completamente diverso. Ma entrambi gli autori danno lustro alla comunicazione, la celebrano come forma d’arte e di verità, come fonte di ricchezza, come il palombaro che va a recuperare i relitti dell’anima, scovando inimmaginabili tesori, i quali alimentano la nostalgia, fanno gioire e soffrire, custodiscono frammenti di senso.
     I personaggi del romanzo di Oz si denudano (o vengono denudati) attraverso la propria (o altrui) narrazione di se stessi: ‘Come dopo un incidente aereo […] ci siamo messi a decifrare, per corrispondenza, il contenuto della scatola nera della nostra vita’. Le pagine più belle sono quelle che coinvolgono Alec e Ilana, divorziati da sette anni, ma ancora uniti da una raffinata tenebra di rancore e passione – puro piacere leggere quelle parole. Nondimeno, ogni personaggio firma con la propria penna; ogni lettera trasuda di una storia interiore irripetibile; ogni lettera è una prospettiva diversa su se stessi, sul mondo e sugli altri personaggi trascinati nella trama. Alec, glaciale professore che studia il fanatismo religioso; Ilana, fiammeggiante puttana moglie e madre; Manfred, troll affarista amico e nemico; Michel, scuro astuto e devoto; Boaz, biondo ribelle figlio-gigante, fusione di Gulliver e Gesù in versione hippie: ciascuno di loro dice la sua; ciascuno di loro affonda il braccio nella scatola nera e porta alla luce un pesce guizzante.  
     Molti sono i temi scandagliati dallo scrittore israeliano, con sensibilità: il tempo, la fede, la felicità, l’amore. Temi classici. Il tema più originale (e che appare con una certa frequenza), tuttavia, è quello che l’autore stesso chiama il gioco dell’ombra di un terzo nel letto. Un gioco tenero e macabro che impreziosisce con mistero i tessuti di una storia d’amore particolare, rendendola seducente anche da un punto di vista più generale. Ad esempio, Ilana scrive ad Alec: ‘Richiamavamo a noi un uomo che mi avesse per caso attirato. Tu lo impersonavi. A volte impersonavi tutti e due, te e l’altro. Il mio ruolo era quello di darmi alternatamente o contemporaneamente a tutti e due. La presenza di quelle ombre estranee ci trafiggeva di un piacere ferino, bruciante, che attingeva dal mio ventre e dal tuo petto urla, giuramenti, suppliche, spasmi quali non ho mai incontrato se non nel parto. O nella morte’.
     Quella di Oz è un’archeologia narrante. Il collage di lettere che mette insieme contribuisce ad una ricostruzione ontologica del passato di cui i singoli personaggi sono gli attori, scrivendo se stessi. L’autore è soltanto il burattinaio che muove i fili, ma sono i burattini a parlare, acquisendo vita propria.
     La scatola nera è dunque un libro da leggere adesso, nell’era della povera gente che comunica con cilestrini volatili virtuali, perché – pur non avendo alcuna istanza pedagogica – ha un forte potere deanestetizzante. Insegna come il racconto – anche solo interiore – di se stessi e dell’altro (di tutti coloro che occupano un posto rilevante nelle nostre esistenze), può infondere un’elettricità insperata a oggetti sepolti nel presente. Il presente è un cimitero di lampadine fulminate. Quelle lampadine ci sono ancora, sono sempre lì ma non si vedono. E il racconto di sé e degli altri – inteso come riesumazione del significato nel mondo attraverso il linguaggio – genera la possibilità di una visione che nessuna lente ipertecnologica potrà mai consentire.

Il Barone Inesistente

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06 agosto 2013

Roberto Bolaño – Un romanzetto lumpen


If there was hope, it must lie in the proles, because only there, in those swarming disregarded masses, eighty-five percent of the population […], could the force to destroy the Party ever be generated […] If only they could somehow become conscious of their own strength, would have no need to conspire. They needed only to rise up and shake themselves like a horse shaking off flies.

George Orwell, 1984

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Bianca ha diciannove anni e lavora da un parrucchiere. Lava le teste. Vive insieme al fratello nella casa dei genitori, morti in un incidente stradale. Abbandonati gli studi, con la loro pensione da orfani non possono permettersi molto. Il fratello, tuttavia, sarebbe disposto a rinunciare a tre pasti su tre – tre pasti su quattro, si corregge – e invita la sorella a licenziarsi. Lei sorride – forse – e non si licenzia. Nel giro di una settimana il fratello trova lavoro in una palestra: lava i pavimenti. Cosa possono aspettarsi dal loro futuro? Un giorno arrivano (con l’intenzione di restarci) il bolognese e il libico, due persone amiche del fratello, o che il fratello preferisce considerare amiche. Li ha conosciuti in palestra: lavorano lì anche loro e si dedicano al culturismo. Figure mestamente uguali, distinguibili soltanto per una lieve venatura della voce. Ombre sovrapponibili. I due uomini – si scopre – hanno stretto un patto di sangue; si sono fatti un taglio sul palmo della mano e hanno unito il loro sangue. In dono portano scorte di integratori proteici dai nomi fantascientifici, come i Fuel Tank 3000 che forniscono tutte le sostanze nutritive necessarie a un fisico vincente. E, in cambio dell’ospitalità, lavano i piatti. A turno, indifferentemente, si scopano Bianca.
     La mattina Bianca va a lavare le teste e gli altri tre – dicono – vanno a cercare lavoro. Ma non si trova. Neanche uno straccio di lavoro. La sera si discute di cose varie senza una direzione precisa. Un piano, servirebbe un piano. Quale piano? Bianca fa finta di non ascoltare; cerca di dimenticare subito; una nube criminale si addensa nella sua mente. Poi tutto sembra dissolversi davanti al televisore, il dio della casa la cui silenziosa, apatica, venerazione è corroborata da una vaga mania per il videonoleggio. Film porno, soprattutto. Ma non solo. Film di qualsiasi tipo. Le vittime sacrificali del dio della casa non devono avere una struttura particolare. Il videoregistratore prende quello che viene. I fedeli spesso si addormentano sul divano o restano a guardare il film fino alla fine senza dire una parola. 
     La parola ‘lumpen’ viene associata a Lumpenproletariat:Espressione foggiata da K. Marx(ted. «proletariato straccione») per indicare il ceto infimo delle grandi città, formato di elementi economicamente e socialmente instabili, per effetto in genere del fenomeno della disoccupazione e della sottoccupazione’ (Enciclopedia Treccani). Ma in tedesco, ‘lumpen’, significa molte cose: straccio, delinquente e perfino bulbo oculare. È un termine che, in qualche modo, ha un rapporto con la luce, con la vista. Come se dal basso, anche dal gradino più basso, fosse possibile vedere qualcosa di significativo.
     Bianca sfoglia ‘Donna Moderna’ e risponde al quesito ‘Se fossi un pesce, che genere di pesce saresti?’ – nella risposta della ragazza è racchiuso tutto il senso, tutta l’assurda dignità, di guardare anche dal gradino più basso – ‘Uno di quelli che si usano come esca. Una volta, da bambina, ho visto un pescatore […] Vicino la residenza del papa […] Le esche erano pesci minuscoli, trasparenti, con riflessi argentati [Vi erano pesci di due tipi] Quelli grandi erano i genitori e quelli piccoli i figli […] I primi, in effetti, li aveva pescati, ma i secondi li aveva comprati in una pescheria […] Non erano buoni da mangiare, servivano solo come esca’.
     Il piano. Ecco il piano. Bianca comincia a prostituirsi presso un enigmatico ex divo del cinema che si fa chiamare Maciste perché ai tempi d’oro, oltre ad aver vinto il titolo di Mister Universo, aveva interpretato quel ruolo in alcuni film. Adesso se ne sta rinchiuso tra i ninnoli delle sue antiche vittorie in una casa enorme che ha adibito a bordello e palestra personale. Coltiva la sua passione per i muscoli e il sesso con una violenza sacrale. Le luci sono tutte spente. Lui è rimasto cieco in un incidente d’auto. Cosparge il suo nuovo fiero pasto d’unguenti, lo rincorre per le stanze, lo sbatte sulla panca, lo possiede senza mai saziarsi. Bianca deve trovare la cassaforte. Lì c’è il futuro di suo fratello e dei suoi amici. Magari anche il suo. La cerca, ma della cassaforte nemmeno l’ombra. Bianca è ormai invischiata nelle tenebre di Maciste: ‘Dal momento in cui l’avevo visto nudo, enorme e bianco, una specie di frigorifero rotto, [era come se] tutto si fosse fermato (o io mi fossi fermata di colpo) e le cose adesso succedessero a un’altra velocità, una velocità impercettibile che equivaleva alla quiete’
     Roberto Bolaño descrive l’invischiarsi di Bianca in Maciste servendosi del non detto (e del non visto), con un’attenzione spietata per dettagli apparentemente futili, svolgendo con stile unico una raffinata analisi del sentimento del dolore (più che dell’amore); il sentimento di un dolore universale. Maciste, ad esempio, è un personaggio tragico, e nella sua decadenza svela un dolore paradossalmente simile a quello di Bianca e suo fratello. Sulla sua pelle di grande pesce sfavillano riflessi argentati degni di un lumpen, raggrinzisce pagina dopo pagina: è un’esca pure lui.
     Il titolo del film che si è ispirato a questo romanzo è Il futuro. Compare qualche volta nel testo la parola ‘futuro’; se ne discute in brevi botta e risposta. È un tema che coinvolge i giovani, e i protagonisti (almeno, Bianca e suo fratello), sappiamo che sono giovani. Però, passato presente e futuro hanno confini decisamente permeabili nel romanzo di Bolaño. Il futuro, ad esempio, è racchiuso in una cassaforte inesistente; e questa cassaforte, finché Bianca non si autoconvince della sua inesistenza, è nascosta da qualche parte nel bunker del cieco Maciste, dove si rievoca il passato in un presente che non sembra avere termine, un punto di svolta verso il futuro; e se questo futuro c’è, è un futuro orbo, come orbo è colui che lo custodisce.
     Il tema vero di Un romanzetto lumpen è il grido disarticolato degli straccioni e dei reietti. La giovane età li non salva. L’amore non li salva. Sono esclusi dalla vita. Sono relegati alle circonferenze più oscure e lontane della vita, dove il tempo gira intorno a se stesso con un Jack Daniel’s eclissato nel cartone. In loro non c’è, non può risiedere quella speranza di rivoluzione che ci aveva visto George Orwell - soprattutto perché quell’eventuale speranza implicherebbe una consapevolezza inconcepibile in questo romanzo; quella speranza non sarebbe inserita in un contesto storico, geografico e politico (contesto evanescente in Bolaño; concreto e permeante in 1984). 
     Le esistenze di questi proles si disintegrano nel vuoto e nel pianto, ciascuno devastato nella propria solitudine. Esistenze destinate a consumarsi e a rimanere nell’ombra. Almeno, finché qualcuno non racconta la loro storia; finché qualcuno non articola il grido in racconto, come fa Bolaño. Allora quella storia diventa una forma di vendetta, un riscatto ontologico a posteriori. Gli straccioni diventano cavalli eternamente incandescenti su cui nessuna mosca oserebbe mai posarsi. La letteratura può fare anche questo. 

Il Barone Inesistente

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