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L'Inesistente: Edward Bunker - Cane mangia cane

20 luglio 2017

Edward Bunker - Cane mangia cane

The same name! the same contour of person! the same day of arrival at the academy! And then his dogged and meaningless imitation of my gait, my voice, my habits, and my manner! Was it, in truth, within the bounds of human possibility, that what I now saw was the result, merely, of the habitual practice of this sarcastic imitation? Awestricken, and with a creeping shudder, I extinguished the lamp, passed silently from the chamber, and left, at once, the halls of that old academy, never to enter them again.

Edgar Allan Poe, William Wilson, 1839

***

Procuratevi uno spazzolino da denti, anche usato, meglio se uno di quelli professionali sottilissimi e fluo che, nonostante si sfascino puntualmente il giorno dopo, i dentisti vi smollano a fine visita, forse per smaltire una strisciolina del loro senso di colpa farcito di zeri; forse perché siete troppo vecchi per Micro Machines, Digimon o altre pacifiche baby diavolerie. Assicurate quindi il frammento di qualcosa di tagliente all’estremità del suddetto spazzolino con un elastico attorcigliato, ed ecco lo scettro della rovina alla quale, per gusto o per necessità, andrete incontro; ecco l’emblema del cane mangia cane, della malattia tutta umana che vi farà scivolare in un susseguirsi incessante di botole finché il vostro cranio non si sfracellerà sull’ultima di queste botole: finta, crudele, scioccamente inesistente, come uno smile disegnato con il rossetto sullo specchio del cesso di un aeroporto.
     Dimenticavo: siete in un carcere ad alta sorveglianza, per cui lo spazzolino truccato è buona cosa nasconderlo; nei calzini, ad esempio, se non avete già barattato il destro per mezza sigaretta bavosa e il sinistro per un fiammifero. Quando arrivate nello spogliatoio e individuate il vostro bersaglio (che può anche non essere il dentista, ma chiunque vi stia, per qualche ragione, antipatico), e quest’ultimo non solo vi dà le spalle, ma se la ride pure con i suoi compagni di doccia eterosessuali, aspettate che si tolga la pashmina di Versace. Afferrate l’arma e, con garbata destrezza, infilzatela in un punto preciso, là dove s’incontrano le scapole, mettiamo; fate dunque scorrere senza paura la lama lungo la spina dorsale, applicando una pressione bastevole ad aprire due spessi lembi di tessuto epiteliale, come fosse la zip di una giacca indossata alla rovescia, scoprendo così una fila ordinata di vertebre incastonate in una fodera rossa vivissima di spruzzi.
     Questa scena, mutatis mutandis, pare essere molto cara a Edward Bunker, il quale la itera sovente, quasi fosse un marchio di fabbrica; una scena che, nella sua pulita spietatezza, è genesi e sintesi della prosa tipica dell’autore, così banalizzata da paludati critici letterari, che la relegano a un (sotto)genere noir/crime tipicamente americano, tacciandola di eccessivo autobiografismo e ripetitività. Eppure, un musicista crucco noto ai più con il nome di Ludwig van Beethoven, ha fatto della ripetitività la sua cifra stilistica, componendo sinfonie lanciate nello spazio affinché non siano troppo bulli gli alieni che un giorno ci conquisteranno.
     Leggere Bunker è come giocare a racchettoni su un campo di calcio: sui racchettoni sono stati applicati scarpini con tacchetti di ferro, per cui tutti corrono a piedi nudi cercando di scaraventare quanti più palloni gonfi di sangue nella porta avversaria; però solitamente non vince mai nessuno, perché i palloni esplodono, piove e sta cominciando a fare buio.
     In Cane mangia cane si susseguono episodi di violenza, che sfociano in altri episodi di violenza; narrare è precipitare verso l’inferno, in una successione di botole fagocitate da altre botole di cui non si vede la fine; è un girone infernale verticale, su cui vertiginosamente colano e si addensano i delitti, come su una schiena recisa da un sottilissimo spazzolino professionale, fluo e artigianalmente modificato.
     Bunker è uno scrittore pulp esistenzialista, che denuncia un malfunzionamento strutturale dell’uomo ma, soprattutto, dell’uomo in seno alla società da lui stesso auspicata; per questo il suo lavoro non può ridursi a un parallelismo letterario del cinema di Tarantino, benché fra i due corresse buon sangue (è il caso di dirlo!), in quel di LA; non a caso, Bunker pubblica Little Boy Blue nel 1980, nel 1992 è Mr. Blue in Reservoir Dogs e “I’m blue” significa “sono malinconico, triste, depresso”; comprensibile per un ragazzino che, nato a Hollywood, a soli diciassette anni viene recluso nel temutissimo carcere di San Quentin (sì, proprio il nome di battesimo di Tarantino!); tra le aiuole di Beverly Hills sbocceranno comunque i fiori del male di Edward, sebbene (o proprio perché) l’ossessione per il crimine non l’abbandoni mai del tutto.
     La prosa di Bunker si sviluppa come una spirale dalla quale è impossibile uscire; un incubo in cui si replicano efferatezze e situazioni estreme, descritte con pulizia impressionante, con un’ironia sobriamente maniacale che non si limita a divertire il lettore, ma riflette sete di comprensione dell’umano, un’indagine intima e sensibile avulsa da ogni erudizione ma carica di materia che non appesantisce il ritmo: uomini-cane si drogano e si uccidono ad infinitum, e l’autore fa a brandelli il loro racconto, lo mette ad asciugare sulle pagine, facendoti sentire l’odore della carne che marcisce nella sovraesposizione romanzesca.
  Bunker evita sia il melodramma sia la superficialità, privilegiando un estetismo ironico, contemplativo, forse spietatamente scettico, ma mai (troppo) sadico né nichilista. Mad Dog, il protagonista di Cane mangia cane, ben interpretato da Willem Dafoe nel film del 2016, rappresenta l’uomo nella sua terrena, ridicola potenza devastatrice, l’uomo che crede di poter ottenere tutto eliminando il resto, distruggendo continuamente se stesso, il proprio doppio; ma l’uomo che uccide e si uccide senza sosta, in realtà, cerca semplicemente una nuova forma di dipendenza, che poi è sempre la stessa.
     La vera droga è la dipendenza in sé: dipendenza dalla cocaina, dal sesso, dal cibo, dipendenza dal mors tua vita mea, dipendenza dal movimento indotto dall’ipertrofica smania di sovvertimento delle regole, dall’illusione che possiamo desiderare e salvarci allo stesso tempo. La vera droga è la fatua convinzione che la dipendenza possa essere evitata, che vi sia un senso nei pensieri che dovrebbero giustificare il nostro essere solitari e rapaci sottoinsiemi ontologici di un casuale antro intergalattico; che vi sia un senso nelle azioni capaci di trasformarci in soggetti passibili di redenzione.


Il Barone Inesistente

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