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L'Inesistente: agosto 2014

14 agosto 2014

Paul Auster - Follie di Brooklyn

Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas.

Agostino di Ippona, De vera religione

***

Non bisogna per forza essere dei divi per raccontare una storia fuori dal comune, o meglio, perché la storia raccontata appaia come una storia straordinaria, folle e irripetibile. La necessariamente fasulla eccezionalità del soggetto preso in considerazione, infatti, non esiste in sé: l’imporsi del personaggio agli occhi degli altri in quanto divo è una mera (e spesso casuale) questione di stile; in altri termini, è il modo in cui viene narrato qualsiasi evento abbia coinvolto tale soggetto nell’inesorabile consumarsi della sua vita, a trasformare quest’ultimo in un uomo meno umano degli altri, e quindi degno di maggiore attenzione, se non devozione. Follie di Brooklyn, affascinante manifesto sul senso della scrittura, fornisce un chiaro esempio del suddetto fenomeno: ciò che domina non è il commerciante omosessuale Harry Brightman – il quale, tecnicamente, non è nemmeno il protagonista – bensì la patologia del come, ossia la maniacale disposizione degli elementi che determinano il racconto della sua storia nella storia, nell’accalcarsi delle storie attorno al tema della (non)esistenza.
     Con questo libro, Paul Auster – esponendo le sue follie nelle vesti di un agente assicurativo in pensione che cerca e pensa di trovare il posto ideale per morire a Brooklyn – afferma la possibilità stilistica di dare un’ontologia all’esistenza, vera o falsa (che importa?), ma comunque efficace. Partendo da una base nichilista per cui nulla ha senso, l’autore non si lascia imbrigliare dal pensiero debole e, su indecifrabili scheletri di conigli rovesciati a caso dal cilindro, infilza siringhe piene di un fluido che ricostruisce i tessuti: i piccoli cuori tornano a pulsare sotto il pelo bianco; i roditori cominciano a guardarsi attorno drizzando le orecchie. È, certo, un’operazione esecrabile, eppure esprime la volontà intrinseca di dare vita a ciò che altrimenti non l’avrebbe: una fabbrica di divi inesistenti, ma che zampettano brillando fra le pagine di un romanzo, come la gemmazione malata - benché tutto sommato positiva - della mente di uno scrittore che per soddisfare la propria dipendenza da un esistere incomprensibile, fa sorgere spontaneamente un pantheon di figure narranti: ibridi da laboratorio che irraggiano un’animalità tanto enigmatica da riuscire a comunicare un messaggio esistenziale di ironica e nostalgica inquietudine.
     Il coniglio meglio riuscito è senza dubbio Harry Brightman, il quale, pasteggiando una sera con il pensionato e suo nipote Tom, rievoca un sogno dei tempi della guerra in cui, simile a un Anubi a stelle e strisce, eroicamente traghettava gli orfanelli sopravvissuti ai bombardamenti verso un edificio battezzato Hotel esistenza. Il discorso si sviluppa, ognuno dice la sua, e i commensali – poco convinti, ma di comune accordo – si lanciano inconsciamente nella fortuita ricerca di quel posto. Tom, dopo aver lasciato il dottorato bruciando la tesi nel camino in seguito a una crisi pantoclastica, in  fondo vorrebbe invertire la rotta, dato che né i mesi autopunitivi trascorsi lavorando a perdifiato nell’abitacolo di un taxi, né il nuovo impiego da assistente presso la libreria antiquaria di Harry, hanno rappresentato una svolta significativa. D’altra parte, il pensionato, se all’inizio andava cercando il luogo ideale per morire, man mano che il presente zampilla intrecciandosi con il passato stravolgendo i piani di un’esistenza immaginata al tramonto, scopre che la morte non lo interessa affatto, che desidera scrivere un epilogo diverso: le biografie di divi inesistenti, magari.
     Al college Tom si era laureato con il massimo dei voti con una tesi dal titolo Eden immaginari: la vita della mente in America prima della Guerra Civile. Uno studio comparativo che metteva a confronto due autori apparentemente agli estremi opposti del pensiero americano: Edgar Allan Poe e David Henry Thoreau: ‘un alcolizzato del Sud… reazionario in politica e con atteggiamenti aristocratici e una fantasia spettrale. E un astemio del Nord… di idee rivoluzionarie, puritano nella condotta e chiaroveggente nella sua opera. Poe era artificio, e il buio di una mezzanotte al chiuso. Thoreau era semplicità, e la radiosità della vita all’aperto’. Entrambi, tuttavia, spasimavano per la stessa cosa: il rifugio interiore, ‘quel luogo dove un uomo si reca quando la vita nel mondo reale non è più possibile’. Se Poe in Filosofia dell’arredamento illustra la stanza ideale, ‘un luogo dove leggere, scrivere e pensare… una catacomba contemplativa, un santuario senza rumore dove l’anima infine può trovare una misura di pace’, nei boschi di Walden Thoreau riflette un analogo rifugio dall’esistenza, che poi paradossalmente coincide con la ricerca dell’esistenza stessa.
     L’Hotel esistenza si materializza in una sperduta campagna del Midwest. Un B&B ricoperto dalla polvere, perché non è mai stato ufficialmente inaugurato, non ha mai avuto una clientela, non ha mai svolto la sua funzione esistenziale di B&B. Una coppia di sposi aveva deciso di investirci i propri risparmi, di mollare tutto e di farne la loro attività principale. La moglie però era morta non appena ultimati i lavori di ristrutturazione. Aveva scelto lei gli interni, la disposizione delle stanze e le relative decorazioni. Il marito non aveva mai avuto né il coraggio di vendere il B&B né di aprirlo al pubblico, così trascorreva la maggior parte del suo tempo a tosare il prato: i fili d’erba crescevano come i capelli di colei che aveva amato un tempo. Tom e suo zio gli chiedono di passare lì alcune notti, per via di un guasto all’auto. Harry è rimasto a New York per organizzare una truffa legata a un finto manoscritto autografo de La lettera scarlatta di Hawthorne. Stanno quasi per acquistare il B&B e relizzare la scrittura dell’Hotel esistenza, ma arriva una telefonata imprevista e il folle progetto sfuma.
     Leggendo Follie di Brooklyn si percepisce non solo quanto scrivere possa/debba essere un’ossessione, ma anche e soprattutto la fenomenologia perversa che si innesca quando si è preda di questa ossessione. Perfino uno scrittore del calibro di Franz Kafka non era esente dalla patologia del come. Un aneddoto biografico riferisce di un incontro al parco: Kafka, una bambina e una bambola inesistente. Una bambina ha perso la sua bambola e, in lacrime, chiede a Kafka se per caso l’ha vista andare da qualche parte. Chiunque avrebbe potuto semplicemente rispondere: no, mi dispiace tanto, mamma te ne comprerà una più bella. Lo scrittore, invece, racconta di aver parlato con la bambola: è partita, non mi ha detto dov’è perché è un segreto e non sa quando tornerà, però mi ha scritto una lettera per te, che mi sono dimenticato a casa. I due si danno appuntamento il giorno seguente, sempre al parco in quel luogo che ormai ha già assunto il potere simbolico di essere il motore immobile di una storia. Ma come raccontare questa storia? Kafka si affretta a tornare a casa e si arrovella tutta la notte per la stesura della lettera, immaginando nel dettaglio le parole e i sentimenti che una bambola in fuga avrebbe potuto rivolgere a una bambina, perché l’esistenza diventa tangibile nel momento un cui la si crea raccontandola in un certo modo. La bambina e lo scrittore si incontrano molte altre volte, e ogni volta si aggiunge un particolare: la bambola è dispiaciuta di essere sparita così all’improvviso; ti vuole tanto bene, ma aveva bisogno di cambiare, di andare altrove per crescere, capisci? I come da considerare e le notti di lavoro per lo scrittore si moltiplicano. La bambola ora descrive minuziosamente i vestiti che compra, la scuola che frequenta, le cose nuove che impara, le compagne di classe che le stanno antipatiche o simpatiche per questo o quell’altro motivo. Una mattina, ascoltata l’ennesima lettera che l’ormai febbricitante scrittore le declama ad alta voce, la bambina inaspettatamente sorride, e lo ringrazia per averle fatto ricevere le lettere: quei racconti hanno reso l’assenza della bambola meno amara, anzi, non si sente neanche più così triste adesso che la bambola forse ha trovato il suo Hotel esistenza.


Il Barone Inesistente

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01 agosto 2014

Cesare Pavese - L'istinto

L'uomo vecchio, deluso di tutte le cose,
dalla soglia di casa nel tiepido sol
guarda il cane e la cagna sfogare l'istinto.


Sulla bocca sdentata si rincorrono mosche.
La sua donna gli è morta da tempo.
Anche lei come tutte le cagne non voleva saperne,
ma ci aveva l'istinto.

L'uomo vecchio annusava;
non ancora sdentato; la notte veniva,
si mettevano a letto. Era bello l'istinto.
Quel che gli piace nel cane è la gran libertà.

Dal mattino alla sera gironzola in strada;
e un po' mangia, un po' dorme, un po' monta le cagne:
non aspetta nemmeno la notte. Ragiona,
come fiuta, e gli odori che sente son suoi.

L'uomo vecchio ricorda una volta di giorno
che l'ha fatta da cane in un campo di grano.
Non sa più con che cagna, ma ricorda il gran sole
e il sudore e la voglia di non smettere mai.

Era come in un letto. Se tornassero gli anni,
lo vorrebbe far sempre in un campo di grano.

Scende in strada una donna e si ferma a guardare;
passa il prete e si volta. Sulla pubblica piazza
si può fare di tutto.
Persino la donna, che ha ritegno a voltarsi
per l'uomo, si ferma.
Solamente un ragazzo non tollera il gioco
e fa piover sassi. L'uomo vecchio si sdegna.


Francis Bacon, Painting of a dog, 1952

***

L’uomo vecchio si ferma sulla soglia di casa e lascia che sulla bocca sdentata scorrano mosche; le delusioni che l’hanno ridotto a patetico voyeur, ectoplasma di libertà in putrefazione. La bocca spalancata in una circonferenza imperfetta, in una smorfia penosa, è l’unica fonte di luce: è la lente su cui il sole si riflette proiettando sulla piazza sagome tiepidamente scialbe di cani che sfogano l’istinto.
     Nella cavità orale dell’uomo, l’istinto ha deposto larve che negli anni hanno sostituito lo smalto di un animale che non può più mordere la vita, ma solo osservarla. Osservare i dettagli di quello che resta della vita; quei dettagli a cui prima non aveva dato importanza perché troppo preso dalla vita di cui credeva di nutrirsi, di racchiudere in un istinto soltanto suo, e che invece lo stava semplicemente consumando.
     Attraverso la bocca fluisce quel tepore malsano, i ricordi di quando ancora non era sdentato, di quando ancora poteva godere l’illusoria libertà di montare quella cagna di sua moglie: a letto o, ancora meglio, in un campo di grano – superfluità della scenografia – e assaporare il gran sole (non già il tiepido sole) e il sudore e la voglia di non smettere mai.
     Ma la nostalgia di un piacere vissuto – o forse solo immaginato – qui diventa desiderio attuale che oscenamente si dispiega davanti a un’oralità muta (ciò che dovrebbe distinguere l’uomo dagli altri animali) nella tanto repellente quanto sacra bellezza generata dall’istinto. Bellezza è immobilità. L’immobilità è vera vita e l’istinto non ha bisogno che niente si muova, perché l’atto dell’istinto è in sé immobile e invulnerabile. Niente oltre l’istinto che fa sì che l’istinto sia. L’istinto è oggetto che esiste al di là del tempo e dell’uomo: è sempre stato in quella piazza deteriorandosi senza mai esaurirsi, svincolato dal bisogno di essere esperito – e quindi guardato, prodotto – da chiunque potesse testimoniare la sua presenza nel mondo.  
     La vera caduta dell’uomo, sembra dirci Pavese, non è aver mangiato il frutto proibito, ma aver perso i denti mangiandolo, non essersi resi conto della sacralità dell’istinto nel momento in cui si era preda di questo istinto. Eppure l’istinto è euforia, è oggetto puro, è uscire fuori di sé nell’immobilità di un atto assoluto, magari ripetibile, ma certamente non razionalizzabile, non traducibile in elemento costitutivo dell’identità del soggetto. Tornare in sé consapevoli di aver vissuto soggettivamente l’istinto è impossibile. Se ne può serbare un tiepido riverbero, una manciata di mosche, l’era che non è e non sarà.
     Di fronte all’istinto tutti si voltano a guardare (la donna e perfino il prete), ma neanche sulla pubblica piazza si può fare di tutto: lo si può contemplare senza riuscire a fare niente; oppure biasimarlo, violentarlo (come il ragazzo che fa piovere sassi); ed è proprio in questo caso che nella tragedia il poeta fa emergere un principio di inequivocabile rivincita: la dignità dello sdegno. L’uomo vecchio, infatti, si sdegna. E perché mai un uomo ormai marcescente e inutile dovrebbe sdegnarsi se un ragazzo prende a sassate una coppia di cani che fornica nella pubblica piazza? Perché se l’uomo, sopraffatto dal dolore e deluso da tutte le cose, perde l’oralità (e quindi, in un certo senso, la sua umanità) è pur sempre in grado di sdegnarsi di fronte all’istinto vandalizzato, di fronte all’ignoranza, alla bellezza incompresa e profanata. Nella tragedia, l’uomo-non-più-uomo – il fantasma che era che non è e che non sarà – mantiene la soggettiva libertà di ribellarsi a ciò che oggettivamente non è bello, di difendere per sempre il gran sole e il sudore e la voglia di non smettere mai.


Il Barone Inesistente

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