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L'Inesistente: luglio 2013

23 luglio 2013

Michel Houellebecq – Estensione del dominio della lotta


When routine bites hard, 
And ambitions are low. 
And resentment rides high, 
But emotions won't grow. 
And we're changing our ways, 
Taking different roads. 
Love, love will tear us apart again. 

Ian Curtis & Joy Division

***

Uscite di casa. Procuratevi un piccolo tamburo, possibilmente antico, foderato in pelle di animale. Andate dove vi pare, magari in un museo che non sia considerato moderno, e rubate il vostro oggetto. Poi, rientrate. Cercate una stanza vuota (se non è vuota, svuotatela), buia e non molto ampia. Chiudete la porta e sedetevi al centro. Iniziate a battere col palmo della mano; colpi lenti, sempre più forti, senza perdere la regolarità del ritmo. Colpi sempre più forti: bam, Bam, bAm, baM, BAM. Il rumore deve amplificarsi fino a riempire tutto lo spazio attorno a voi, finché non si distinguono più i singoli colpi, e un unico rumore, un’unica preghiera, un’unica violenza comincia a penetrare nelle vene, mescolandosi al sangue. Dopo questo esperimento potrete (forse) farvi una vaga idea della percezione fisica dell’estensione del dominio della lotta.
     Michel Houellebecq è uno scrittore dal carattere composito e contraddittorio: conservatore ma antiborghese e anticapitalista, aristocratico ma con un radicato senso della giustizia e con un finto (funzionale ai suoi fini narrativi) disinteresse per l’umanità; una bestia rara che con scrittura raffinatamente amara condensa molteplici temi in una microscopica, crudele, opera geniale. Nel suo libro emerge un’alacre denuncia della modernità, intesa soprattutto come anestetizazzione dell’animalità dell’uomo, che disintegra l’individuo, secernendo noia, rabbia, tristezza e, soprattutto, condannandolo all’incapacità di ascoltare e di raccontarsi, di amare e di essere amati, e quindi a una solitudine più o meno estrema, la quale frequentemente sfocia in cronici stati depressivi.
     L’estensione del dominio della lotta, nel suo aspetto negativo, è l’incarnazione del liberalismo economico e del liberalismo sessuale diffusisi a partire dal XIX secolo nella società occidentale, consumista e materialista; i due fenomeni, collegandosi, spaccano la società in due sfere incompatibili, perennemente in contrasto tra di loro: ‘Da un lato c’è un sistema basato sulla dominazione, sul denaro e sulla paura – un sistema decisamente maschile, che chiameremo Marte; dall’altro c’è un sistema femminile basato sulla seduzione e sul sesso, che chiameremo Venere. Tutto qua’. Il dominio della lotta, però, può estendersi anche in modo positivo: come battaglia personale per rimettere in causa l’ordine del mondo a partire dal coraggio del singolo, per conquistare e liberare l’amore imbrigliato negli assurdi archetipi comportamentali artificialmente stabiliti dal mondo moderno; come battaglia per un principio morale o estetico, per un sentimento, per un qualcosa di tangibile o misterioso che si chiami Dio, Brigitte Bardot, o Rivoluzione.
     Il libro di Houellebecq potrebbe definirsi un non-romanzo, un pamphlet lirico, politico e, allo stesso tempo, stilisticamente programmatico. Le viscere della società moderna vengono scandagliate con un virtuosismo eccentricamente limpido, sciorinate con eleganza ma senza alcun pudore. L’autore francese, infatti, imposta la narrazione su due livelli: il primo è quello della destrutturazione del romanzo tradizionale – o meglio, moderno – poiché la modernità si svela inadeguata a raccontare se stessa, nelle proprie smagliature intrise di vuoto: ‘Questo progressivo sbiadire delle relazioni umane non manca di porre qualche problema al romanzo […] Il meno che si possa dire è che siamo lontani da Cime tempestose. La forma romanzesca non è concepita per ritrarre l’indifferenza, né il nulla; occorrerà inventare un’articolazione più piatta, più concisa e più dimessa’.
     Il secondo livello narrativo è scandito dal ripetersi di una cruciale serie di novelle d’argomento animale, di cui è opportuno citare nel dettaglio almeno quella intitolata Dialoghi tra uno scimpanzé e una cicogna. Dal terrore di uno scimpanzé che tenta di far valere le sue ragioni contro un sistema economico e sociale governato da cicogne le quali, per tutta risposta, lo massacrano con i loro becchi (negatività dell’estensione del dominio della lotta), si passa rapidamente al Terrore di Robespierre; il boia, prima di trinciargli la testa con una mannaia, gli strappa la benda che gli avvolgeva la mandibola fratturata, brandendola come un trofeo mentre schizzi di sangue e frammenti di denti si spargono al suolo: ‘[In quel] momento preciso, mi piace pensare che nella testa di Robespierre ci fosse ben altro che la sofferenza. Altro che la consapevolezza della sconfitta. Una speranza? O magari la certezza di aver fatto ciò che doveva fare. Maximilien Robespierre, io ti amo’ (positività dell’estensione del dominio della lotta).
     L’animalità dell’uomo è al centro dell’intera discussione. Non a caso, il protagonista del non-romanzo (quadro di un'azienda come tante, annoiato e disgustato da ogni cosa) trova consolazione e perfino un barlume di bellezza solo nella contemplazione della natura: paesaggi incontaminati e vacche ruminanti alle prime luci dell’alba. L’animalità dell’uomo è andata perduta nella sua adolescenza (nell’antico), perché la sessualità si è imposta come ‘sistema di gerarchia sociale’ (nel moderno): così ‘l’uomo è un adolescente limitato’, istintivamente catapultato alla ricerca dell’amore per sua struttura ontologica; ma il rischio di sfracellarsi è incredibilmente alto, perché dopo l’adolescenza l’individuo si ritrova risucchiato negli alveoli sterilizzanti della società moderna; e se si può trarre sollievo dalla visione di ciò che resta di naturale o dalla sprezzante consapevolezza del non-significato di molte dinamiche sociali (supinamente accolte dalla maggior parte degli adulti), questo sollievo non basta. L’uomo non più adolescente che rifiuta di arrendersi al nulla della modernità, nel tentativo di risolvere la tragica ‘separazione assoluta tra la propria esistenza individuale e il resto del mondo’, gioca una partita a domino con se stesso. O ci si arrende all’autocastrazione del moderno o si precipita nella follia dell’antico; e al desiderio d’amore si associa il desiderio di morte. L’amore stesso può farci a pezzi.

Il Barone Inesistente

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17 luglio 2013

John Williams – Stoner


La superficialità mi inquieta ma il profondo mi uccide.

Alda Merini, Aforismi e magie

***

Tutte le storie possono diventare interessanti, se vengono raccontate bene. Questo è il caso del romanzo di John Williams. L’intera vicenda sembra risolversi in poche battute, fin dalla prima pagina; la vita del personaggio principale è racchiusa in una nube di insolubile anonimato: si iscrive all’università all’età di diciannove anni; otto anni dopo gli viene conferito il dottorato in Filosofia e comincia ad insegnare fino all’anno della sua morte, il 1956; pochi colleghi tentano di riesumare il ricordo di lui e, se lo fanno, ‘di rado la curiosità si spinge oltre la semplice domanda occasionale’; per i più giovani Stoner è solo un suono. La vita di un uomo si è dissolta in un suono ‘che non evoca alcun passato o identità particolare cui associare loro stessi o le loro carriere’. Tuttavia, questo suono squisitamente scialbo inizia ad amplificarsi riga dopo riga, trasformandosi nell’eco di un’esistenza degna di essere ricostruita in ogni suo dettaglio, in un crescendo narrativo che lascia al lettore poco tempo per respirare.
     L’eco di Stoner si dispiega attraverso episodi più o meno significativi che lo coinvolgono nel corso degli anni: dalla prima adolescenza in cui lo vediamo con le mani imbrattate di terra mentre aiuta il padre a coltivare il piccolo, sterile, orto di famiglia; all’età adulta, contrassegnata da un matrimonio sbagliato con una donna indecifrabile, da polverosissimi giorni dedicati allo studio dell’influenza della retorica medievale nella cultura del Rinascimento inglese, da un tenero ma fatuo rapporto con la figlia, e da un morboso legame con il proprio ruolo di insegnante; fino alle pagine che conducono al letto dell’ospedale, dove il corpo è rapidamente consumato da un tumore e dove altrettanto rapidamente il protagonista scopre una nuova, finale, fertilità esistenziale.
     Il romanzo può essere letto come un ottimo libro, scritto bene e, nonostante il grigiore della trama, sorprendentemente coinvolgente. Un romanzo dall’impostazione classica, senza grandi colpi di scena. Però, se si analizza meglio lo stile scelto dall’autore, se si presta attenzione alle impercettibili incongruenze e alle sottili ombre che si accumulano di paragrafo in paragrafo, si può dire qualcos'altro. Emerge infatti la centralità di un tema semplice, ma con uno spessore filosofico piuttosto accattivante: la conquista della superficialità.
     Conquistare la superficialità significa sopravvivere al profondo, evitare cioè che le sofferenze dell’interno prendano il sopravvento rendendoci impossibile l’interazione con l’esterno; ma significa anche convertire il profondo da assassino in complice, in sorgente di forza soggettiva nascosta agli occhi del mondo.
     Ci sono cose per cui vale la pena lottare, affinché cambino; altre cose devono rimanere come stanno (cambiarle sarebbe solo una fatica inutile); alcune cose bisogna lasciarle lì come sono, nel loro spazio sacro, spostandole leggermente secondo le proprie necessità (qualora non si possa fare altrimenti), ma senza che nessuno si accorga di tale spostamento, per quanto lieve. Ecco il segreto della superficialità. La superficialità è un dono di molti, diciamo anche un talento copiosamente diffuso, un talento che ha la capacità di rivelarsi molto utile una volta messo a frutto, in quanto può considerarsi uno dei più importanti principi di adattamento dell’individuo alla società o al contesto esteriore in cui si ritrova ad agire.
     Più raro è l’evento legato alla conquista della superficialità. Questa conquista può avvenire percorrendo diverse vie. Due di queste (senza dare troppo spago ad eccessivi schematismi) possono essere considerate nel caso di Stoner: quella dell’autoconvincimento e quella dell’autoproiezione. La prima via (più passiva) può implicare da parte del soggetto la negazione di alcune delle sue credenze più intime ma, in primo luogo, prevede l’autoconvincimento che le cose debbano andare in un modo e non in un altro; la seconda via (più attiva), richiede invece la proiezione da parte del soggetto verso un punto di vista più alto, per poter considerare la superficialità come oggetto alieno rispetto alla propria identità, da conquistare per la sopravvivenza della stessa.
   Stoner percorre entrambe le vie, ma soprattutto la prima, quella dell’autoconvincimento, seducendo la superficialità col sorriso che cela un profondo ma tutto sommato benevolo disgusto. Stoner rinuncia a qualsiasi forma di idealismo: rinuncia alla responsabilità nei confronti della propria figlia, completamente lasciata alla deriva, accontentandosi del fatto che massicce dosi di alcol la fanno sentire meglio; rinuncia alla conoscenza del proprio rapporto con la moglie (personaggio complesso e non facilmente avvicinabile, ma comunque abbandonato); rinuncia all’erotismo, buttando al vento l’unica vera travolgente passione che abbia mai avuto la possibilità di esperire (e alla quale avrebbe potuto dare futuro e concretezza con qualche sacrificio e un po’ di coraggio), scaricando l’amante non per una faccenda morale, ma per banalissime ragioni professionali (lei lavorava come ricercatrice presso la stessa università); rinuncia alla giustizia, piegandosi e spezzandosi (con vacua resistenza) davanti al potere del nuovo capo dipartimento, il quale gli rovina la carriera e la reputazione con un mobbing chirurgico e ad ampio raggio (difficile, ma non impossibile da contrastare). Per Stoner non ci sono ideali da soffocare, né punti di vista più alti da raggiungere. La sua vita è scandita da una continua alternanza di rinunce e accettazioni che ne fanno un personaggio decisamente passivo. Eppure riesce con abile e ironica finezza ad ottenere una certa forma di riscatto. E questo riscatto coincide con la conquista della superficialità, ottenuta con la consapevolezza della propria passività, della propria mediocrità, della propria idiosincrasia al cambiamento. In altri termini, in virtù di questa profonda consapevolezza di sé, il modo in cui Stoner riesce a conquistare la superficialità (oggetto), per quanto possa essere opinabile, è una prova di grande dignità e verità nei confronti di se stesso (soggetto): in punto di morte la conquista della superficialità si rivela ossimoricamente come il suo segreto più profondo, il fondamento della sua identità, il senso della sua esistenza. 

Il Barone Inesistente

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