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L'Inesistente: marzo 2014

31 marzo 2014

Vittoria Aganoor – A un Colibrì imbalsamato

O piccoletto morto,
fu bene a te funesta
la screziata vesta
di smeraldo e rubino!
Eri troppo giocondo,
eri troppo felice;
e se dà gioie al mondo
le dà brevi il destino.


A luminosi monti
sovra l’abisso oscuro
viaggiavi sicuro,
e il cielo azzurro e il flutto
credevi tuo, credevi
eterno quell’immenso
tripudio, e non sapevi
che solo eterno è il lutto.

Dimmi, piccolo ucciso,
in quel tempo beato
cui da Dio t’era dato
il cielo ampio cercare
sulle alucce tue pronte,
che mai vedesti, oh dimmi,
di là di là dal monte,
di là di là dal mare?

L’ali aperte ancor tieni,
povero amor! Volavi
verso brezze soavi
dietro un sogno gentile,
quando un umano, un forte,
ti precideva il volo
saettandoti a morte.
Oh l’uom, quanto è mai vile!

Mio povero uccellino,
un tempo anch’io, lo sai,
per l’etere vagai
libera, e m’eran ali
- ali ardite e possenti -
i miei giovani sogni,
i miei palpiti ardenti,
le speranze immortali.

Anch’io con volo aperto
dietro un sogno d’amore,
dietro un amico albore
che mi ridea lontano,
anch’io fui còlta, e il dardo
mi lanciava un nemico
ben più del tuo gagliardo
che del mondo è sovrano.

Tu, morto sei col sole
negli occhi, in mezzo ai fiumi
dei silvestri profumi,
e a sospirar la festa
perduta mancò l’ora.
A me, per la tenace
cura che mi divora
tutta la vita resta.


Carlos Arthur, Hummingbird, 2012


***

Una felicità eccessiva, rappresentata da una preziosa veste di smeraldo e rubino, se dà gioie al mondo – perché, tutto sommato, è bello e coraggioso beccare la vita con un abito dai colori sgargianti – dà fastidio al destino, ovvero non solo si rivela funesta, ma condanna a una morte moltiplicata all’ennesima potenza. Il piccoletto in questione – il Colibrì a cui la poesia è dedicata – prima viene ucciso, poi imbalsamato e quindi costretto a un'eternità non desiderata, a una pseudovita necessariamente immobile da cui non si può più staccare, conservando colori brillanti, ma non più appartenenti a qualcosa di realmente vivo.
     L’autrice sceglie di proiettare sulla scena un Colibrì imbalsamato: un soggetto osceno nella terribilità policroma delle sue piume. Il palco è solo per lui, ma anche se il piccoletto fosse in vita, di certo non gonfierebbe il petto per la vanità instillata da questo protagonismo assoluto. Le piume, infatti, sono finte: riflettono solo l’idea del cielo in cui le ali si aprivano sicure e, ignorando la propria bellezza, sorvolavano mari e monti dove ancora giacciono enigmi destinati a rimanere senza risposta, atrofizzati nello scheletrino del Colibrì, sgombrato da ogni organo e ricoperto di luminoso smalto. Le ali sono ancora aperte, ma non possono più sbattere verso brezze soavi, né intridersi di profumi silvestri né rincorre sogni gentili; il becco si spalanca come l’abisso oscuro sopra il quale il piccoletto viaggiava sicuro, ma da quell’abisso non esce alcun suono; la musica si dissolve nell’urlo di un volo interrotto.
     Un volo nel quale l’autrice si identifica: anche lei un tempo vagava per l’etere: le ali erano ardite e possenti, i sogni erano giovani, i palpiti ardenti, le speranze immortali. E poi, cosa è successo? La menopausa ha calato il suo sipario, imbalsamando il desiderio femminile di volare? O forse anche Vittoria Aganoor è rimasta scottata dalla saetta di un uomo – tanto forte quanto vile – che ha polverizzato in lei il sogno d’amore?
     E se lei afferma di avere ancora tutta la vita - per ricominciare masochisticamente a volare, procacciandosi un’altra morte? - a differenza del Colibrì, questa creatura rivestita di smeraldo e rubino, che non può più volare pur avendo le ali aperte, è una grottesca istantanea che continua ad emanare seducente putrefazione, sintetizzando il dramma di una perdita che ancora fa male, ma dalla quale l'autrice non pare intenzionata a liberarsi: un dolore sottile – una tenace cura che resta e divora – che non è nostalgicamente rievocato ai fini di una sua esorcizzazione lirica, perché si tratta di un dolore inestricabile, che rimane come una presenza fisica, se pur imbalsamata, come il proiettile di un cacciatore che è andato ad infilzarsi in una zona irraggiungibile e comunque inoperabile del corpo. 


Il Barone Inesistente

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25 marzo 2014

Umberto Saba – Trieste

Ho attraversato tutta la città.
Poi ho salita un’erta,
popolosa in principio, in là deserta,
chiusa da un muricciolo:
un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.

Trieste ha una scontrosa
grazia. Se piace,
è come un ragazzaccio aspro e vorace,
con gli occhi azzurri e mani troppo grandi
per regalare un fiore;
come un amore
con gelosia.
Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via
scopro, se mena all’ingombrata spiaggia,
o alla collina cui, sulla sassosa
cima, una casa, l’ultima s’aggrappa.
Intorno
circola ad ogni cosa
un’aria strana, un’aria tormentosa,
l’aria natia.

La mia città che in ogni parte è viva,
ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita
pensosa e schiva.


Pablo Picasso, Ritratto, 1881

***

Quando pensiamo a una città la nostra mente si affolla di profili femminili: pale d’altare o miniature; donne ilari o austere, eleganti o scarmigliate, spontanee o labirintiche; e le immagini di una nostra esperienza più o meno intensa legata a quel luogo si addormentano fra le loro cosce. Trieste no. Trieste è maschio: un ragazzaccio con gli occhi azzurri che non dorme e tira sberle. Trieste è uno schizzo disegnato dal vento: la Bora che scardina tetti e forse tutto ciò che può considerarsi ricordo.
     La poesia si apre e si chiude con Saba barricato nel suo cantuccio, una sorta di trincea contemplativa circondata da un muricciolo che segna il termine del termine: la frontiera di un universo poetico costantemente minacciato dalle sferzate ossimoriche di una geografia che respinge perché sessualmente troppo attraente. L’unico riparo è offerto dalla sottrazione alla vita: le sberle del ragazzaccio con gli occhi azzurri – per giunta aspro e vorace – possono essere vissute solo schivandole, nel pensiero, nella trasfigurazione poetica di una grazia che a Saba piace (e non poco), ma che per la sua scontrosità non può essere esteticamente fruita: può solo essere contemplata nel tormento di un’aria natia, un’aria strana che domina tutto distruggendo tutto. E nemmeno la visione di un capezzolo (etero?)sessuale – l’ultima casa che si aggrappa sulla cima di una collina – può salvare dalla schiavitù erotica autoimposta dal poeta; il quale sì, era sposato, ma con una gallina gonfia di piume: eloquente metafora con cui Saba altrove dipinge la moglie.
     Trieste, come uno scoglio, è scalfita dagli schiaffi del vento; una scarica di enjambement scolpisce l’essenziale, gli alveoli dove brulicano i granchi dell’Adriatico. Resta un oblungo organismo roccioso che profuma di zuppa primordiale, sotto la cui superficie respira un uomo raggricciato nella violenta nudità del proprio desiderio. Un amore con gelosia. Un bacio negato a priori, che non si può vivere né conoscere con le labbra. Un amore che fa rima con fiore. Uno scarabocchio infantile. Un amore totale e ingenuo nei confronti di una parte di sé inequivocabilmente oscura e dalle mani troppo grandi. Mani troppo grandi per regalare un fiore. Mani che non sanno compiere il gesto di affetto più semplice del mondo, incarnando l’impossibilità di una breccia pacifica in direzione della vita. In queste mani, maschili e scabrosamente fresche, Saba distilla il suo triste erotismo.


Il Barone Inesistente

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22 marzo 2014

Sergio Corazzini – Canzonetta all’amata

Conviene che tu muoia,
dolcezza, oggi, per me.
Vele di barche in mare!
Non dovevo lasciare
che, pur se triste, il sole
bagnasse il limitare!

Conviene che tu muoia,
dolcezza, oggi, per me.

Forse mi allontanai
troppo, ché, certo, mai
tanto mi piacque andare
solo, con la mia bella
rete nuova e una stella
per guida fra’ rosai.

Conviene che tu muoia,
dolcezza, oggi, per me.

Erano così chiare
le acque! Dolce pescare
se la rete sia nuova!
Quanti nidi contai
Di stelle e quante mai
Vele di barche in mare?

Conviene che tu muoia,
dolcezza, oggi, per me.

Quale gioia tentò
la porta, s’inoltrò
cauta e infantilmente
rise nell’obliata
casa e fiorì la grata
di viole? Non so.

Conviene che tu muoia,
dolcezza, oggi, per me.

Felicità mi spiace,
felicità è loquace
come un bimbo; l’ho a noia!
La mia rete ha ceduto,
la mia stella ha perduto
il fedele seguace.

Conviene che tu muoia,
dolcezza, oggi, per me.

Vele di barche in mare.
Chi attendi al limitare?
Regina delle lagrime
e de’ dolci martiri,
non anche tu sospiri
chi deve ritornare?

Sì, conviene che muoia,
dolcezza, tu, per me.

Andrea Sacchi, Morte di Didone, XVII secolo

***

Se veniamo scaricati da un’amante, che si tratti di una sveltina o di qualcosa di più articolato, non è quasi mai un'esperienza piacevole. In questo caso, però, non è lei che liquida lui, ma è lo stesso Corazzini che con questa canzonetta dichiara il proprio addio. Un addio senza rancore, forse divertito, certamente necessario: già scintillano vele di barche nel mare. Un addio che si dipana nella forma di una ballata macabramente intima, in cui molto viene taciuto sotto il velo di una personale mitologia delicata e beffarda. A questo addio si aggiunge l’eco di un placido invito a morire detto col sorriso da chi, con ironia, trascende la tristezza propria e altrui legata all’inevitabile separazione.
     L’autore non sa (o finge di non sapere) quale gioia, inoltrandosi nella casa di lei, permise l’amplesso. Che sia un modo per dimenticare? Eppure tutto sembra già offuscato nella dimensione del mito; tutto sembra già collezionato in ogni suo petalo dentro un’omerica ampolla dell’oblio. Dopotutto a Corazzini non interessano le viole, bensì le rose, tra cui si intrufola per pescare stelle nella sua rete; questo infatti è il nucleo della sua poetica, del suo essere non-poeta: fanciullo irretito in un microcosmo pulp, dove, sommerso da cespugli irti di spine, sguazza in pozzanghere di sangue, e piange.
     Il fanciullo qui non è l’alter ego di Corazzini, ma è la Felicità. Per essere precisi, una felicità che annoia come un bimbo troppo loquace che invece di stelle pretende caramelle. Così, la rete del non-poeta si strappa, diventa inutile e ridicola: le stelle ormai sgusciano via dalla trappola e, vagamente disgustate, tornano a nascondersi fra i rosai. Le stelle, a causa di quella fastidiosa felicità, perdono il loro fedele seguace, ossia colui che, sporco di rosso, andava a pescarle.
     La costa di Cartagine, pur bagnata dal sole, non zampilla più di pesci poeticamente appetitosi. Pescare, qui, non è più dolce: per sfamarsi Corazzini ha bisogno di salpare, e anche con una certa fretta. Fondare un Impero come fece Enea? No, non c’è tempo: la rete deve essere ricucita al più presto perché gliene serve con urgenza una nuova, se vuole sopravvivere. Didone, d’altra parte, ha già una lama che le sfiora il seno. Le sue lacrime sono diverse da quelle del fanciullo che piange. Sì, conviene proprio che muoia, questa Regina.


Il Barone Inesistente

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