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L'Inesistente: maggio 2014

16 maggio 2014

Alfonso Gatto - Donne sulla spiaggia

Più nude della terra, pescose più del mare
Le donne che si lasciano scottare,
quasi a un pelo di brividi la schiena,
un rapido traslato dell’immagine
che le spiega all’aperto delle pagine,
le pagine del cielo, lo stampo dell’arena.
Così fisso il silenzio, la vertigine
dell’ora in sé caduta, la prurigine
scomoda che s’assesta a suo piacere
la voglia della pelle, lo stimolo del bere.
L’amore è il niente e il tutto di quel pieno
che volge all’anca e si abbottona al seno.

Pablo Picasso, Due donne che corrono sulla spiaggia, 1922


***

Non un granello di sabbia, su questa spiaggia. Non una goccia di mare. Zero ombrelloni. Zero vento. Zero cavalloni. E le donne non hanno dimenticato apposta il bikini a casa per farsi squadrare al di sotto del mento da occhi birichini. Semplicemente, si lasciano scottare senza sentimento. Su di loro scorre un peloso brivido: la zampa di un gatto troppo timido – anche se nessuno gli dice smetti! – un gatto che invece dovrrebbe fare il divo: scardinare quelle schiene, ritagliare i contorni, scandagliare; perché i suoi artigli sono raggi ultravioletti, perché ha fame, perché sotto quella pelle potrebbe esserci qualcosa di vivo.
     Ma il desiderio implode. Quelle donne più nude della terra non respirano; e mentre il gatto in silenzio si gode la prurigine del piacere negato, quelle si affilano traslandosi in immagine. Quelle donne si dispiegano nel cielo come cubi di carta e vertigine. Un boato di pagine bianche, agglomerati di creature subacquee, giochi di anche e seni abbottonati che il gatto avrebbe voluto scrivere o almeno divorare.
     Che fare? Quelle donne non sono vere; o forse, con non fragile coraggio, avrebbero potuto diventare sirene. Amore non potabile, in ogni caso: lo stimolo del bere resta, ma il tempo è già scaduto. La bestia, pancia all’aria, rifrulla le sue pene: il gatto, raso al suolo che non è spiaggia, sgancia un frivolo miao! in faccia al nulla, fissando il volo a cui partecipare non può. E tutto si dissolve in un concettuale anatomico show.    



Il Barone Inesistente

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06 maggio 2014

Giuseppe Ungaretti - Caino

Corre sopra le sabbie favolose
E il suo piede è leggero.

O pastore di lupi,
Hai i denti della luce breve
Che punge i nostri giorni.

Terrori, slanci,
Rantolo di foreste, quella mano
Che spezza come nulla vecchie querci,
Sei fatto a immagine del cuore.

E quando è l'ora molto buia,
Il corpo allegro
Sei tu fra gli alberi incantati?


E mentre scoppio di brama,

Cambia il tempo, t'aggiri ombroso,
Col mio passo mi fuggi.

Come una fonte nell'ombra, dormire!

Quando la mattina è ancora segreta,
Saresti accolta, anima,
Da un'onda riposata.

Anima, non saprò mai calmarti?

Mai non vedrò nella notte del sangue?

Figlia indiscreta della noia,
Memoria, memoria incessante,
Le nuvole della tua polvere,
Non c'è vento che se le porti via?

Gli occhi mi tornerebbero innocenti,
Vedrei la primavera eterna

E, finalmente nuova,
O memoria, saresti onesta.


Lionello Spada, La morte di Abele, XVII secolo

***

Se, come si legge nella Bibbia, tutti gli uomini sono fatti a immagine di Dio, e se Caino è un uomo, la conclusione del sillogismo non è valida, perché Caino non è fatto a immagine di Dio, ma a immagine del cuore. Un uomo che uccide per gelosia e che per millenni ha incarnato l’essenza della malvagità, viene qui riproposto come immagine del cuore: simbolo delle nobili passioni che dovrebbero guidare l’agire umano; organo biologicamente determinato a non fermarsi per garantire la vita.
     Caino, infatti, corre; corre con piede leggero su sabbie appartenenti a un mondo irreale, a una favola in cui lui è pastore di lupi; un lupo leader dalle fauci iridescenti che morde il mondo reale, conficcando denti di luce nei nostri giorni. E Ungaretti si innamora di questo umanoide lupo killer fatto a immagine del cuore. Lo afferma senza mezzi termini: scoppia di brama, perché inseguendolo nel suo aggirarsi ombroso, respira natura; perché la corsa di Caino segue il ritmo della poesia. Caino fugge il poeta con il passo del poeta che, desiderando quel corpo allegro più di ogni altra cosa, lo insegue, e quando l’ora è molto buia chiede: sei tu fra gli alberi incantati?
     Terrori, slanci e rantolo di foreste disegnano la camera germinale della poesia. Una poesia che non ha niente di femminile; una poesia che spezza come nulla vecchie querci; una poesia che prende le distanze dall’anima. Caino è la vera scintilla anima(le) per cui Ungaretti sbava, e che si scola in scorribande intrise di nero; Caino è la fonte nell’ombra che, prima di andare a dormire, imbratta allegramente la notte di sangue.  
     Il poeta, però, deve fare i conti con la necessità di calmare l’anima – quando quest’ultima, reiteratamente stropicciata, comincia a stiracchiarsi nel letto al canto del gallo – e con la smania di delitto consumata (e da consumare) nottetempo: impossibile soddisfare queste due istanze in sincronia; impossibile vedere la primavera eterna. L’innocenza degli occhi è negata da un darwinismo incestuoso che si replica a intervalli regolari scanditi dal giorno e dalla notte.
     Nella cassa toracica di Ungaretti pulsa il cuore trapiantato di un lupo. L’anima, afflosciandosi nella sua troppo umana inquietudine, si è allontanata dalla natura e quindi dalla poesia stessa: non è più in grado di instillare il movimento e la luce ingenui di cui il poeta ha bisogno per essere poeta. Di conseguenza, la poesia (il fratello, più forte) stupra l’anima (la sorella, più debole), che muore e risorge ogni mattina in attesa di subire il prossimo assassinio. In altre parole, Caino squarcia le chiappe flaccide di Abele non per gelosia, ma per riaffermare il dominio della poesia sull’anima e della natura sull’uomo.  
     La memoria, antica e polverosa madre della poesia (e dunque dell’anima), si rifugia in una nuvola di noia e da lì osserva il gioco perverso indefessamente imbastito dai propri figli, ormai stanca di essere onesta. Ungaretti certo non si dispera per questa scelta; ricordare non serve più, ululare è sufficiente: ha trovato nuovi fluidi con cui irrorarsi, altre primavere con cui correre alla ricerca di un senso.


Il Barone Inesistente

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01 maggio 2014

Salvatore Quasimodo – Colore di pioggia e di ferro

Dicevi: morte, silenzio, solitudine;
come amore, vita. Parole
delle nostre provvisorie immagini.
E il vento s'è levato leggero ogni mattina
e il tempo colore di pioggia e di ferro
è passato sulle pietre,
sul nostro chiuso ronzio di maledetti.
Ancora la verità è lontana.
E dimmi, uomo spaccato sulla croce,
e tu dalle mani grosse di sangue,
come risponderò a quelli che domandano?
Ora, ora: prima che altro silenzio
entri negli occhi, prima che altro vento
salga e altra ruggine fiorisca.



Max Ernts, The large forest, 1925


***

Tu, poeta, non sei stato abbastanza veloce. Hai provato a fare l’Achille, ma adesso sei un solo un ammasso di carne, polvere e sudore; gonfi il petto per compiere i soliti gesti epici, ma non funziona più; il  tuo eroismo è disperato, hai il fiato corto, è troppo tardi: la tartaruga placidamente ti sorpassa rivolgendoti un più che meritato ghigno.
     Dicevi: morte, silenzio, solitudine, amore; attingevi a un calderone di parole che avrebbero dovuto parlare di vita o, almeno, parole vicine alla vita, in grado di sfiorarla e farla fiorire. Queste parole, però, non sono bastate: immagini provvisorie che il vento, levandosi leggero ogni mattina, ha fatto gradualmente evaporare. Tutto questo BLA BLA BLA è evaporato in cielo, formando nubi di ferro dalle quali, goccia a goccia, il tempo è colato come acido solforico, accarezzando le pietre che voi (maledetti!) poeti ancora non siete riusciti ad animare con il vostro ronzio.
     Quasimodo, allarmato, osa interrogare l’uomo spaccato sulla croce dalle mani grosse di sangue. Si tratta di un’emergenza, dopotutto: il paradosso di Zenone ha avuto la meglio e la verità, sotto una pioggia del genere, scivola lontano. Ora serve un rimedio: quale, però? Un LATTE+ dalle proprietà rivoluzionarie che inietti nuova linfa nelle corde vocali di Achille, forse; o magari un’arma che faccia rallentare la tartaruga, una risposta che spacchi l’assurdità di una corsa destinata al fallimento più grande: il silenzio
     Silenzio che può entrare negli occhi, spargendo nel mondo gli effetti di una cecità che la poesia per secoli ha cercato a tutti i costi di evitare. Ignoranza, omologazione, violenza; e soprattutto alienazione, intesa come idiozia, come non bellezza, come lontananza dalla vita. Bisogna cancellare o convertire al più presto il colore di quelle nubi. Le pietre si sono sfigurate per sempre, afflosciandosi sotto le gocce del tempo, deflagrate in schegge radioattive. Bisogna fermare quella pioggia, prima che la terra assorba quelle schegge, prima che una foresta di ruggine germogli divorando l’uomo. Irreversibile reazione chimica. Nuove pietre devono prendere il posto di quelle vecchie. Le pietre che Deucalione, figlio di Prometeo, si gettò alle spalle après le déluge per ripopolare la terra.


Il Barone Inesistente

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