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L'Inesistente: aprile 2014

24 aprile 2014

Eugenio Montale - L'angelo nero

O grande angelo nero
fuligginoso riparami
sotto le tue ali,
che io possa sorradere
i pettini dei pruni, le luminarie dei forni
e inginocchiarmi
sui tizzi spenti se mai 
vi resti qualche frangia
delle tue penne

o piccolo angelo buio,
non celestiale né umano,
angelo che traspari
trascolorante difforme
e multiforme, eguale
e ineguale nel rapido lampeggio
della tua incomprensibile fabulazione

o angelo nero disvélati
ma non uccidermi col tuo fulgore,
non dissipare la nebbia che ti aureola
stàmpati nel mio pensiero
perché non c'è occhio che resista ai fari,
angelo di carbone che ti ripari
dentro lo scialle della caldarrostaia

grande angelo d’ebano
angelo fosco
o bianco, stanco di errare
se ti prendessi un'ala e la sentissi
scricchiolare
non potrei riconoscerti come faccio
nel sonno, nella veglia, nel mattino
perché tra il vero e il falso non una cruna
può trattenere il bipede o il cammello,
e il bruciaticcio, il grumo
che resta sui polpastrelli
è meno dello spolvero
dell'ultima tua piuma, grande angelo
di cenere e di fumo, miniangelo
spazzacamino.

William Blake, The Great Red Dragon and the Woman Clothed in Sun, 1805-1810

***

Un forno non è proprio il luogo ideale che siamo portati a immaginare per una preghiera, specialmente se nella bocca di quest ultimo sfrigolano ramoscelli in fiamme. Altrettanto inconsueto è invocare la protezione di un grande angelo nero. Eppure il poeta non chiama in causa altre divinità: vuole ripararsi sotto le fuligginose ali di questa creatura e inginocchiarsi sui tizzoni spenti, per accarezzare quel che resta dei rami, sempre che l’angelo nero accetti di sacrificare una dose sufficiente di penne per estinguere il fuoco.
     Nella seconda strofa l’angelo diventa piccolo e a questa metamorfosi segue l’elenco dei suoi attributi. Inno omerico quantomeno sbronzo. L’angelo è buio, non è celestiale né umano; è trasparente, trascolorante, difforme, multiforme; è eguale, ineguale e tendenzialmente analfabeta: le sue parole, infatti, lampeggiano rapide e incomprensibili. Insomma, Montale è un po’ confuso, oltre che mangiapenne a tradimento.
     Nella terza strofa chiede al piccolo angelo nero di disvelarsi – affinché l’enigmatica richiesta del poeta possa compiersi? – quindi gli concede una mitragliata di imperativi e di elogi che potrebbero suonare anche come sberleffi: non uccidermi col tuo fulgore, non dissipare la nebbia che ti aureola, stampati nella mio pensiero! Tu, angelo di carbone, che ti ripari dietro lo scialle della caldarrostaia!
     Se ora l’angelo è d’ebano, poco dopo diventa bianco e stanco di errare; e se prima il poeta gli ha chiesto di disvelalarsi (implicando una non-conoscenza dell’angelo) adesso afferma di riconoscerlo nel sonno, nella veglia e nel mattino, purché non tocchi la sua ala e non la senta scricchiolare: il grumo di cenere che tale contatto lascerebbe sui polpastrelli vale molto meno del pensiero della sua ultima piuma.
     L’angelo, diventato nel frattempo un miniangelo spazzacamino, è imprigionato nella non concretezza, nel limbo della cruna di un ago il cui campo magnetico lo priva della funzione di messaggero: non può annunciare niente, perché là vero e falso restano sospesi, sia per il cammello sia per l’uomo sia per qualsivoglia tronfia o mesta divinità.
     Nel forno si cuoce una ridicola apocalisse; un cortocircuito poetico per cui il drago rosso partorisce e divora il proprio figlio, sbattendosene altamente della donna vestita di sole che gli urla davanti in preda alle doglie. Il poeta è l’angelo nero; quelle penne polverose e bruciacchiate sono le sue; Montale invoca Montale nella tanto umile quanto spietata anticamera di una preghiera che coinvolge esclusivamente se stesso. 


Il Barone Inesistente

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15 aprile 2014

Giacomo Giardina - Non è un quadro

Paese dalle strade a zig-zag,
strade rosse d’estratto di pomodoro
disteso al sole che cade;
casette nane
tutte colorate d’un pallido viola.
Una fontana, prostituta della piazza,
versa due rivi di lacrime
dalle poppe,
sotto un pornografico campanile pendente.
Il vicino arco,
a gambe aperte, lascia vedere
la bellezza rosea del tramonto.
Un girotondo di contadini
Chiude uno strato giallo di fiori:
ansiosi girasoli
che attendono un’aurora
piena d’amorosi calabroni.
Suoni, suoni,
suoni argentini di campane
accendono le stelle
ai divini cieli.

L’idiota sacrista agitando le corde dei sacri bronzi,
con mosse pagliaccesche, cancella la bellezza rosea
del magnifico tramonto siciliano.

Vincent Van Gogh, Girasoli, 1888-1889

***

Sulla tela del quadro colano sghembi rivoli di pomodoro; su questo rosso intervengono dita imbevute negli ultimi lembi di blu concessi dal tramonto, per tingere di un pallido viola le casette nane del paese. La scena dunque lascia spazio alla fontana, la prostituta della piazza. Una prostituta che piange dalle poppe, lasciando che su questa umidità penda un campanile. Un campanile pornografico, a differenza della fontana. Perché mentre il campanile, nella sua maschile evidenza, ha poco da confessare, il poeta decide di dipingere la fontana con stucchevole tragedia tutta femminile. La fontana non ha molta scelta. Non si può muovere. È nuda e dalla sua nudità sgorgano lacrime. Sembra che il mascara le scivoli dagli occhi mescolando linee nere agli altri colori del quadro. Il campanile, assorbito il sole di una giornata, si china sulla fontana sciorinando la propria erezione. Spettatore di questo bislacco porno en plein air è il vicino arco: apre le gambe il più possibile, sfogando un esibizionismo bifocale: non solo lascia che la bellezza rosea del tramonto si veda, ma che essa proietti i suoi caldi barbagli su ciò che in piazza si va sfacciatamente consumando.
     È una natura morta che, urbanizzandosi, respira come un paesaggio abitato da divinità cadute, antropomorfe, le quali, per virtù (l’arco e il campanile) o per necessità (la fontana) agiscono senza pudore, tagliando le briglie agli umori e agli istinti più nani. E le casette viola pallido stanno a guardare.  
     Sullo sfondo, un girotondo di contadini – uno strato giallo di fiori – barcolla verso casa, verso l’ultima luce, verso la penetrazione dell’arco. I contadini sono ansiosi girasoli e, in accordo con il loro eliotropismo naturale, seguono i raggi che vanno estinguendosi nella notte e che si trasformeranno in aurora; un’aurora sadica che disseterà la sezione aurea dei petali disposti secondo i numeri di Fibonacci, in cambio di amorosi sciami di calabroni: altre linee nere che si aggiungono al mascara disciolto dalla fontana; ambigui compagni del lavoro nei campi, insetti inutili, ridicoli predatori che non favoriscono l’impollinazione dei fiori né producono miele ma, semplicemente, si cibano di altri insetti. E attenzione alle femmine! Le femmine dei calabroni sono dotate di pungiglioni in grado di provocare reazioni anafilattiche anche mortali, qualora venisse loro il ghiribizzo di vendicare la fontana.
     D’altra parte, i contadini-girasoli sono creature dalla doppia sessualità, una sessualità sintetica che forse li protegge dalla vita e li proietta oltre le virtù e le necessità della vita stessa, oltre gli umori e gli istinti più nani della natura e dell’uomo: se infatti il contadino richiama subito l’immagine di un maschio, il girasole è femmina: nelle Metamorfosi di Ovidio si legge infatti che la ninfa Clizia, innamoratasi di Apollo, per aver contemplato troppo a lungo il suo carro fiammeggiante nel cielo, si sia trasformata in girasole.    
     La cultura, l’abitudine, l’idiozia imposta da ciò che è ritenuto non profano: questi sono i pagliacci che cancellano la bellezza rosea del tramonto, la bellezza in sé, l’unica luce che si dovrebbe liberamente seguire per elevarsi e superarsi sulla terra al di là di qualsiasi presunta verità.
     Si agitano le corde delle campane; quel suono sacro plana sul dipinto come un barile di varichina: disinfetta, strappa via ogni colore. E il quadro non è più un quadro.


Il Barone Inesistente

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07 aprile 2014

Fëdor Dostoevskij – Le notti bianche

Tutti mi chiedono
tutti mi vogliono
donne, ragazzi,
vecchi, fanciulle,
qua la parrucca...
presto la barba...
qua la sanguigna...
Figaro... Figaro...
son qua, son qua...
... Ohimè che furia,
... Ohimè che folla,
uno alla volta
per carità.

Da Il barbiere di Siviglia, Gioachino Rossini

***

Non siamo a Siviglia; o forse sì? Non importa. Potremmo essere ovunque: la ringhiera a cui lei si regge singhiozzante appartiene a San Pietroburgo, così come a qualsiasi altra città in cui le notti, talvolta, si tingono di bianco, consentendo incontri altrimenti impossibili. Lui raccoglie le lacrime di lei e uno sfavillante squarcio di gioia improvvisamente si apre nella sua torbida esistenza da sognatore; le stringe le mani: a domani, a domani!
     Le notti bianche sono momenti che possono essere vissuti solo se si è giovani (e non per forza all’anagrafe), solo se si accetta l’assurdità dei propri desideri, e tuttavia si continua a sperare, soffrire, immaginare. Insomma, se si accetta di abitare un luogo senza barbieri – perché qui il tempo biologico si ferma e i capelli non crescono più – un luogo senza Figaro ma comunque di qualità, un luogo dominato dalle nebbie del sogno, il vero factotum della città. Fate largo... Tutti lo chiedono, tutti lo vogliono: donne, ragazzi, vecchi, fanciulle.
     Lei passa tutto il giorno a casa, perché la nonna cieca con la quale abita ha cucito le loro vesti con uno spillo, impedendole di andare a caccia di situazioni immorali. Lei, ogni tanto abbozza una scappatella, ma fallisce quasi sempre: ‘Sentite, non ridete della nonna. Io rido perché tutto è così buffo… Che fare se la nonna è proprio così, e solo io le voglio un po’ di bene? Allora la nonna se la prese con me: dovetti subito sedermi al mio posto e, addio, non potei più muovermi’. La strategia dello spillo, però, si rivela inefficace: un giovane forestiero di bell’aspetto affitta il mezzanino, si trasferisce, e con garbo inizia a corteggiare lei. Prima entra nelle grazie della nonna, regalando traduzioni francesi di Walter Scott – Ivanhoe è particolarmente apprezzato – e poesie di Puškin; quindi si spinge oltre, inventandosi di avere un biglietto in più per un palco, un’occasione imperdibile, un’opera buffa: Il barbiere di Siviglia di Gioachino Rossini. La nonna è entusiasta dell’idea. Lei, attraverso la musica, scaglia timidi e arrossati sguardi al forestiero, che ricambia. Al ritorno, incendiata dal fresco ricordo di quell’incrocio oculare, scivola nel letto: sogna.
     Sogna, spiega a colui che ha raccolto le sue lacrime, di incontrarlo al più presto, su quella stessa panchina: le aveva fatto una promessa. Un anno prima, infatti, non riuscendo più contenere i morsi dell’amore, aveva raccolto le sue cose in un fagotto, presentandosi al forestiero con le occhiaie scavate dal buio, istericamente pallida e in procinto di svenire. Il forestiero aveva capito tutto in un attimo; facendola sedere sul letto, le aveva detto che sarebbe dovuto andare a Mosca per sistemare i suoi affari ma sarebbe tornato l’anno successivo e, se lo avesse amato ancora, l’avrebbe sposata. Promesso. Lei non poteva non accettare: a domani, a domani!
     Andare da qualcuno con il proprio fagotto, è indubbiamente una dimostrazione di coraggio, o meglio, di genuina furia; una furia indelebile sagomata a rasoiate dal sogno. È il simbolo del dono totale di se stessi a qualcuno. Una cosa assoluta. Una cosa buffa. Una cosa che solo i giovani che errano nelle notti bianche sono in grado di fare. Tuttavia, un gesto simile non implica un necessario lieto fine. Lei, infatti, aspetta sulla panchina raccontando la propria storia a chi ha raccolto le sue lacrime – il quale, a sua volta, si è innamorato di lei – perché è passato un anno, il forestiero è tornato a San Pietroburgo, ma ancora non ha dato segni di sé.
     Uno, due, tre, quattro: alla quarta notte lui si dichiara e lei, sorpresa ed eccitata dalla novità, ride e preme il viso sul suo petto, bagnandolo con lacrime di altro sapore. E non si limita a queste effusioni: comincia a fare progetti. Dice che dimenticherà tutto; adesso ama solo lui e lui soltanto; gli stringe le mani: domani, domani! Si sposeranno e insieme alla nonna vivranno in una casa più grande e potranno perfino andare all’opera, magari a Il barbiere di Siviglia... Poi, frettolosamente, corregge l’inelegante lapsus: non vale, mia cara. Spillo scaccia spillo? Può darsi. Certo che il primo spillo avrà sempre un vantaggio sul secondo spillo… Infatti, sulla strada compare il forestiero e lei, senza esitare un microsecondo, si getta tra le sue braccia.
     Mattino: il raccoglitore di lacrime piange, ma non ha perso; continuerà a sperare, soffrire, immaginare; perché possiede le forbici del sogno, e scriverà libri meravigliosi... Do Re Si Do Re Si Do Re Si Do Mi Mi. 


Il Barone Inesistente 

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