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L'Inesistente: ottobre 2016

19 ottobre 2016

Canto delle foglie gonfie d'acqua e morte #9


Anonymous, Abstract Wolf, 2016

***

All'alba, il cancello traboccava di una straordinaria quantità di foglie gonfie d’acqua e morte; soprattutto alla base. La cresta di spunzoni non si riusciva a vedere, perché la cima si spezzava nella soffice foschia. Lo storpio non guardava in alto, tanto era indaffarato a farsi la via con le stampelle in quella selva imprevista. Infilzava mucchi di sterpi e li lanciava lontano, oppure agitava le stampelle freneticamente nello spazio di un angolo non retto per aprirsi un varco. Quel suono metallico svegliava i ragazzi dello studentato tutte le mattine alla stessa ora. Nessuno si lamentava, perché ormai si erano abituati a essere strappati dal sonno in quel modo e, d’altra parte, non avrebbero saputo cosa fare per impedirgli di fare quello che faceva. Il cimitero era attaccato al collegio universitario; o l’edificio era attaccato al cimitero, benché non ci fosse alcuna apparente connessione logica tra i due luoghi. Qualcuno continuava a dormire o a fingere di dormire, sfibrato da una notte di intensi titillamenti camerateschi; altri si alzavano, giocavano a pisciarsi addosso sotto la doccia e a picchiarsi con asciugamani intrisi di acqua gelida; riempivano quindi le tazze al ‘grande totem’ – così chiamavano il vecchio organo che i superiori avevano trasformato in dispensatore di caffè (a differenza dell’acqua delle docce, perennemente bollente) – e si mettevano a scrutare dall’alto quel bizzarro individuo del cimitero, mentre seminudi, o nudi, e tappezzati di segni purpurei, tentavano di asciugarsi i capelli con il cencio idrorepellente messo loro a disposizione dalla confraternita. Avevano aderito a tale vita associativa più per il vitto e l’alloggio gratuito, che per reale vocazione o intima adesione ai valori della rinomata promiscuità professata dalla setta religiosa. Inoltre, lo stemma delle divise, degli asciugamani, delle lenzuola (e persino delle tazze), arrapava ironicamente la loro estetica adolescenziale: la testa di un lupo cui erano stati strappati gli occhi campeggiava in un triangolo giallo fosforescente, schiumando sangue dalle orbite cave con le zanne affondate nella carne dell’agnello redentore. I ragazzi pensavano che i superiori avessero le idee un po’ confuse, ma trovavano l’immagine più che OK: il simbolo di una vendetta ricamata all’uncinetto su tutti i loro tessuti; una vendetta che scintillava ogni volta che le loro ginocchia erano costrette a piegarsi di fronte alle cappelle per la preghiera quotidiana. All’alba, l’effetto consueto era un illuminarsi elettrico di superfici rettangolari, oltre le quali ondeggiavano giovani ombre maschili ancora non del tutto sveglie, che si stropicciavano al giorno nascente sul cimitero; seminude, o nude, comunque marchiate dalle orbite cave del lupo. Nessuno sapeva cosa lo storpio andasse cercando; e non ne erano particolarmente intimoriti. Sbirciavano nella sua direzione senza interesse, come un fenomeno naturale che si aspetta che accada tutti i giorni alla stessa ora e in quel punto. Quel giorno, però, sentivano che avrebbero assistito a un evento inconsueto (o all’evento che finora avevano comunemente ignorato in assenza di abitudine). Lo storpio avanzava tra foglie gonfie d’acqua e morte con le sue braccia bioniche roteanti: tridenti da sub convertiti in stampelle, nonché in ottimi arnesi per frugare nelle tombe. Le stampelle cominciarono a colpire le sbarre del cancello… BAM BAM BAM… più lampadine si accesero; più giovani ombre maschili ondeggiarono sulla superficie rettangolare delle finestre. Il cancello si sfondò: lo storpio avanzava recando in bocca un globo rosso zeppo di spine, rilucente nella foschia. I ragazzi capirono che stava cercando un posto dove inginocchiarsi; magari il sepolcro di una persona annegata per sbaglio durante un'immersione, un corpo che non era riuscito a salvare; così aveva perso l’uso delle braccia per l’eccessiva pressione, abbracciando lo scafandro fino alla fine dell'oceano. All’alba, lo storpio arrancava tutto sanguinante senza sapere con certezza quale fosse la lapide del cadavere amato. Sopra di lui, tutte le ombre studentesche adesso lo osservavano. Lupi ciechi e fosforescenti. Piegò le ginocchia al centro del cimitero. Erano buone e fresche, le rose: ne masticò tre petali.

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17 ottobre 2016

Canto dell'Hard Rock Café #8


Hard Rock Café sign, Pigeon Forge, Tennessee

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Entrai nell’Hard Rock Café annaspando come un anfibio vincitore di una gara di corsa contro il diluvio. Avrei voluto che una mano invisibile mi strizzasse nella sua morsa da capo a piedi, ma probabilmente mi sarei dissolto in una pozzanghera allagando l’intero locale, causando un cortocircuito e l’esplosione delle casse che ovunque rimbombavano How soon is now? degli Smiths; inoltre avevo già messo in conto una broncopolmonite per la mattina successiva, sempre che già non avessi una febbre da cavallo. Un cavallo con le branchie, febbricitante, che nascondeva il libro H631 sotto il cappotto inzuppato. Mi suona il telefono, messaggio su WhatsApp: Ce l’hai? Mi guardo attorno per individuare il trespolo dal quale il professore avrebbe potuto scorgermi, ma la sala era piena di gente sbevazzante o intenta a giocare a Pokémon GO, come i due ragazzini di spalle al centro del bancone: C’è un Magikarp che sguazza nel mio succo d’arancia! L’ho visto prima io! No, è il mio bicchiere e lo prendo io! Guarda che dico a mamma che hai versato la sua cosa nel tuo succo! Ehi, mi fai male! Mamma è in bagno, e se continui a rompermi te ne do un altro! Mi suona il telefono, messaggio su WhatsApp: Insomma, ce l’hai? Appendo il cappotto e mi riavvio il ciuffo con il mio pettinino di acciaio tascabile: Ce l’ho, dove sei? Si avvicina un giovane cameriere, sudatissimo e brufoloso, che sembra intrippato da chissà quale acido; guarda mille anni luce oltre di me: sta aspettando qualcuno, signore? Sì, in un certo senso... Vuole accomodarsi intanto? Grazie, sarebbe magnifico! Se ne va senza dire altro, pispolando con l’iPhone: magari anche lui sta cercando di afferrare qualche Pokemon. Mi siedo a un tavolino con un tovagliolo accartocciato e una tazza non finita e sporca di rossetto: giro la tazza verso sinistra e finisco quello che c’è dentro, forse cappuccino. Quando abbasso la tazza, lui è seduto davanti a me: capelli e pizzetto bianco, e quel fastidiosissimo bottone di agata nera che mette ancora a posto della cravatta per fare l’intellettuale figo. In coda agli esami o ai ricevimenti avevo ribattezzato quell'aggeggio 'la monade': oh, oggi c'ha la monade! Sei in ritardo, dice fissandomi con i suoi occhi da nemico di Batman: due cubetti di ghiaccio appuntiti e roteanti, pronti a schizzare fuori dalle orbite. I ragazzini che giocavano a Pokémon GO non sono più seduti al bancone, uno di loro ha lasciato una felpa azzurra sulla sedia; gliel'ho regalata io per Natale, quella, al mio bimbo più bullo. Sulla sedia accanto è comparsa una donna molto pallida, una sagoma di alabastro sottile vestita di nero, con le spalle scoperte e una cresta arancione. Ti piace, vero? Ha i capelli di colore diverso tutte le sere, osserva con una smorfia. Un tempo avevi gusto, sia per le donne sia per la filologia classica. Non sei più il mio professore e me ne sono sempre fregato delle tue teorie sull’alfa ionica! L’hai pure messa in cinta di due marmocchi, ma non ti vergogni? Una cantante punk da quattro soldi! Non è colpa mia se tua figlia è di una noia mortale. Eppure mi pare che tu la apprezzassi per la sua cultura… La sua cultura, mi scappa un ghigno, e col pollice gratto via il rossetto dalla tazza di cappuccino. Lo sai che sono tutte balle, me la sono fatta perché mi avevi promesso quella borsa alla Oxford University e tante altre belle cose, ricordi? Non ti facevo così, tutto res extensa: meriti questo, fa indicando teatralmente la mia famiglia col palmo all'insù; ti sei lasciato passare troppi treni sotto al naso... La tua smania di litigare con tutto! C'è sempre un nuovo treno da prendere, e forse anche un treno merci diretto in Tennessee potrebbe essere il migliore dei treni possibili... Questo idealismo naïf non ti ha portato molto lontano, caro! Definisca il concetto di 'lontano', professore. Non ho tempo per questi giochi, ce l'hai il libro? fa lui, visibilmente irritato. Sfilo l’H631 da sotto la gamba e lo ripongo sul tavolino con una mano sopra, non mi sono tolto i guanti: eccolo! i suoi cubetti di ghiaccio sfrigolano di stupore. Be’, come hai fatto? Non importa come ho fatto, so bene quanto vale una cinquecentina di Luciano di Samosata: almeno quanto un Magikarp livello 100. Cosa? Lascia stare, dov’è il trolley? Nel bagno delle donne. Bene, muoviamoci! Al bancone mia moglie e i miei figli sono di nuovo insieme, e giocano. Lei mi guarda con la coda dell’occhio, e capisce che la fuga sarebbe stata imminente. Il professore apre la porta e mi mostra il trolley in uno dei cessi laterali. I soldi ci sono tutti. Mi strappa di mano l’H631: le pagine sono tutte bianche. I suoi cubetti di ghiaccio roteano impazziti, ma poi si sciolgono per la frustrazione: è uno scherzo? Qualcosa del genere. Le sue labbra si muovono, ma prima che possa pronunciare qualunque tipo di protesta, il mio pettinino di acciaio gli ha aperto la gola. La monade rotola per terra.    
     
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14 ottobre 2016

Canto dei piccoli uccelli neri e bianchi #7

Alfred Hitchcock, The Birds, 1963

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Il ponte di legno era circondato da stormi di piccoli uccelli neri e bianchi galleggianti sulla spiaggia: un semicerchio di coralli morti che spuntavano dalla terra come una scintillante distesa di denti spezzati. Gli uccelli emettevano una serie di versi, ma non si capiva da dove provenisse quel rumore; non si capiva se stessero gridando ognuno per conto proprio, insieme, o uno alla volta; magari solo quelli bianchi o solo quelli neri. Quell’unica voce sospesa nell’aria avrebbe anche potuto essere una trovata robotica del resort per ammaliare i clienti, o un’allucinazione acustica dovuta al sole troppo grande, che andava strappandosi in schizzi rossi sulla sommità delle palme. La brezza dell’oceano era più forte dei piccoli uccelli neri e bianchi, e interrompeva il loro volo: le ali si muovevano, ma gli uccelli no; ed erano così vicini e li sentivi così tuoi, che avresti potuto afferrarli uno per uno e riportarli a casa, come relitti di un complesso di affetti andato in frantumi, brandelli del tuo cervello incastonati in un cielo a portata di mano. Benvenuto in paradiso! Abbasso la telecamera: una ragazza in uniforme con i capelli biondi raccolti in una crocchia perfettamente sferica, mi rivolge un sorriso strappazigomi, e con un gesto automatico mi invita a seguirla verso il bar. Camminando vedo un tatuaggio sulla sua caviglia sinistra: tre triangoli equilateri che si intersecano sulle rispettive bisettrici. Lei deve essere il videomaker, suppongo, mi dispiace per il ritardo. Nessun problema, cercherò di montare il drone in fretta; quanto tempo abbiamo prima che faccia buio? Ci sediamo su delle poltroncine zebrate e lei mi porge un welcome drink accavallando le gambe: è così importante per lei il tempo, vero? Guardo la sua caviglia: all’interno di ciascun triangolo è disegnato un numero: 6, 3 e 1. Lei se ne accorge, il sorriso si allenta, i suoi occhi si tingono di ombra per un istante, poi inclina la testa e mi dice: sa, sull’isola il tempo a volte si ferma, tanto che sembra non esserci più. Tiro su dalla cannuccia: immagino, qui si ha la sensazione di essere fuori dal mondo, non ricordo quasi più quando sono arrivato e devono essere passati a mala pena dieci minuti! L’ombra nei suoi occhi si annacqua in un fiotto luminoso. Ecco, questo è l’itinerario che ho preparato per il suo shooting, fa lei porgendomi un foglio completamente bianco attaccato a una cartellina nera. Ho solo bisogno di una firma qui in fondo, così posso accompagnarla al bunker a montare il drone: sì, è così che chiamiamo lo spazio dove si trasformano le cose sull’isola, politica aziendale, lei capisce? Certo, capisco. Metto giù il bicchiere e allungo la mano verso l’affilatissimo lapis rosso che lei, in attesa, mi porge a mezz’aria. Le nostre dita si sfiorano; in quel contatto si concentra il verso di tutti i piccoli uccelli neri e bianchi galleggianti sulla spiaggia. Lei sbatte le palpebre: i suoi occhi sono così vicini, li sento così miei, vorrei afferrarli uno per uno e riportarli a casa. Nelle iridi turchesi grumi di ombra si mescolano al barlume di speranza che prima la mia battuta aveva acceso. Firmo il foglio completamente bianco e le restituisco la cartelletta, ma mi prendo il lapis. Bene, le faccio strada! Passiamo davanti alla reception, e tre ragazze bionde con crocchia perfettamente sferica alzano la testa dai loro PC, rivolgendomi lo stesso sorriso strappazigomi: benvenuto in paradiso! Attraversiamo un viottolo di altissime palme da cocco e arriviamo a una porta di metallo, la 631. Al centro del bunker, su un ampio tavolo di vetro convesso, che occupa quasi tutto lo spazio, si sovrappongono plastici di resort: altri paradisi da traslare su isole moltiplicabili all’infinito. Lei resta in piedi in un angolo con le braccia dietro la schiena. Mi osserva mentre monto il drone sotto una lampadina che pende dall’alto nuda e intermittente. Scanso da una parte la catasta di plastici, tiro fuori una ruota di bicicletta dalla borsa, e la posiziono in orizzontale. Attacco la telecamera nel punto da dove si innervano i raggi della ruota, e tre micromotori, a formare un triangolo ideale. Mi piacerebbe assistere allo shooting, immagino sia un’esperienza indimenticabile, crede sia possibile? La fisso con un cavo in mano. Penso che uno strappo alla regola si possa fare, dico elargendole un occhiolino. Grazie, non sa da quanto tempo aspettavo questo momento! Si avvicina e mi posa una mano sulla spalla. Finisco di intrecciare i cavi, e quando il drone è pronto, lei mi indica un’altra porta che si apre sul retro dell’isola. Non ci sono più palme, solo sabbia, una scintillante distesa di denti spezzati. Sullo sfondo, l’enorme circonferenza del sole è coronata da stormi di piccoli uccelli neri e bianchi che sbattono le ali sospesi nell’aria. Lei mi sta accanto, con le braccia dietro la schiena; il vento ha sciolto la sua crocchia perfettamente sferica; anche l’ombra si è sciolta, come mascara attorno ai suoi occhi bagnati, nei quali si riflette lo spettro rossastro del sole. La sento così vicina, così mia. Vorrei incastonarla nel mio cielo. Attivo il bluetooth, il drone si mette a ronzare. Ti prego, portami via da qui! La cingo da dietro, la bacio sull’orecchio: mi dispiace per il ritardo, non sono qui per salvarti! Sfilo il lapis dalla tasca posteriore dei jeans e glielo conficco nel collo tre volte; lei comincia a dissanguarsi appoggiata al mio petto. La ruota di bicicletta vola verso l’alba. Almeno, tutto sarà filmato.

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11 ottobre 2016

Canto del bagno delle donne #6



Antonio Lopez, 1960s

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Quello sbafo di rossetto avrebbe fatto da scivolo a sciami di conigli ruzzolanti; quella era la sua tana, e lei era molto brava a uccidere i conigli. Oggi era un po' annoiata, e avrebbe voluto staccarsi quel pezzo di labbro e spappolarlo sullo specchio per scrivere HELP come nel paese delle meraviglie; ma, senza metà bocca, nemmeno il più repellente dei conigli se la sarebbe filata. Figuriamoci poi al gate A79 che faccia avrebbero fatto. Cercò quindi di sistemarsi alla bell’e meglio la macchia con il dito, sforzando uno sguardo arrapante. Il dito aveva già cominciato a scivolare troppo in profondità in mezzo ai denti, quando la porta del bagno con minigonna stilizzata si aprì di scatto. Tutto bene, signorina? Le chiede un finto sguattero (uno di quei conigli che probabilmente l’aveva seguita fin lì dal capo opposto dell’aeroporto; dal McDonalds dove aveva trangugiato un triplo nonsocosa, ad esempio; forse aveva trafugato un mocho e pensava di fregarla così, con una maglietta celeste macchiata di ketchup e una fata dei boschi da macho tatuata sull’avambraccio sinistro); sì sì certo, fa lei, tutto bene! Era alla sua destra, un paio di metri circa, ma sembrava più alto, più forte di quella distanza: un groviglio di vene e sudore pronto a scoppiare. Non c’erano tracce di bombe però, a occhio, e lui era spesso così, senza aggiunta di altro. La porta si chiude alle sue spalle. Con la destra impugna il mocho, le vene sono gonfissime e dalla punta delle dita scivola una goccia di sudore. Mi sembra sconvolta, dice, e si passa il pollice sinistro sul naso, stringendo le palpebre. Be’, forse mi sta venendo il ciclo, fa lei. Lui si asciuga il palmo sulla parete piastrellata di bianco, eliminando ogni via di fuga. Lei ha una pistola nella borsetta di velluto nero a coste, ma si è bloccata a guardare l’enorme coniglio tatuato, che la sta fregando di brutto. Il rossetto è ancora a mezz’aria; è tutto di fuori e penetra l’aria che li separa sciogliendosi. Tu sei la 631, vero? La voce al di là del rossetto ha un altro suono, quasi familiare, sicuramente pericoloso. Il mocho, bella trovata per un coniglio livello 4! Invece di sfottere perché non ti cali le mutandine, da brava? Forse il coniglio livello 4 potrebbe chiudere un occhio! Credi di farmi paura? Certo che ti faccio paura: con un colpo di mocho ti spacco la testa e me la porto via e storia finita! Mi stai ricattando? Sospira, la mano scivola sul bianco, l’altra continua a stritolare il mocho; le sue sopracciglia folte disegnano una specie di vagina kamikaze e tutto il corpo pare pronto a balzare sul rossetto: ti ricordavo bionda. Lei si lascia scappare una lacrima. Che fai ora, piangi? Guarda che non m’incanti, so tutto di te! La lacrima scivola sulle piastrelle del bagno delle donne; lui molla il mocho, la sbatte contro il bianco, la bacia. Quale aereo stai per prendere, su, dimmelo! Lei geme, lui le tappa la bocca con l’altra mano, però è sudata e scivola sulla camicetta di Moschino strappandola tutta. La ragnatela di bava si è sfilacciata sul collo. Aspetta! Lui alza la testa. Cosa, ti è tornata la memoria? Lei gli pianta il rossetto in una pupilla stradilatata; poi prende il mocho da terra e gli fracassa la testa, estinguendo così il rumore. Si guarda velocemente allo specchio, la faccia è tutta sbafata di rossetto. Il trolley è nascosto in uno dei cessi e ogni cosa è stata conservata. Sorride. Ha tutto il tempo per sciacquarsi, cambiarsi e dirigersi al gate A79. Al duty free comprerà un nuovo rossetto.

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