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L'Inesistente: marzo 2013

25 marzo 2013

Raymond Carver – Vuoi star zitta, per favore?


L'io è finito perché deve essere delimitato, però in questa finitezza è infinito perché il confine può essere spostato sempre più in là, all'infinito. È infinito secondo la sua finitezza e finito secondo la sua infinità.

J.G. Fichte, Fondamento dell’intera dottrina della scienza

***

Non ci sono dei precisi motivi ricorrenti. Non ci sono descrizioni né personaggi indimenticabili. Non ci sono nemmeno una logica, una morale, un messaggio facilmente decifrabili. Leggere Raymond Carver non è un’esperienza semplice. La sua è una scrittura tecnicamente impeccabile, incredibilmente vicina alla vita, ma ogni singolo dettaglio conduce a una dimensione altra rispetto alla vita; ogni singolo dettaglio diventa immagine simbolica che mentre accenna al minimo fa vedere il tutto; immagine intuitiva il cui possibile significato si distende oltre la mera processione degli eventi. Considerare i racconti di Carver come dei modelli di letteratura minimalista è quindi estremamente riduttivo. Carver è solo in apparenza uno scrittore minimalista. Carver scrive l’assoluto.
     Solitamente, nei suoi racconti emerge il senso di inadeguatezza nei confronti di un particolare evento e di incompiutezza nei confronti della forma generale che la catena degli eventi della propria esistenza potrebbe o dovrebbe assumere. In altri termini, le persone non sanno cosa fare; ma non solo ora, nella situazione determinata dal racconto, non solo a un certo proposito, non solo oggi o domani, ma tutti i giorni che rimangono loro su questa terra.
     La sua scrittura si focalizza sulle cose più piccole e apparentemente insignificanti, ma non ha alcuna pretesa di raccontare la verità. Tutte le parole sono disposte nella loro posizione più assoluta. E dietro ogni frase, così squallidamente perfetta, si apre uno sconfinato orizzonte di tristezza. Di pura, inesorabile, tristezza. E tutto parte dal banale susseguirsi di minuscoli eventi o variazioni d’animo.
     Ciò che rende la scrittura di Carver un monumento, tuttavia, non è tanto da ricercarsi nell’impeccabilità tecnica della scrittura, bensì nel risultato essenziale di quest’ultima, che potrebbe essere definito il domino del non detto.  Grazie a questo effetto, l’autore pone la necessità metafisica di esaminare un avvenimento isolato di una singola vita e a cogliere in esso i microscopici segnali della catastrofe che da quel momento in poi cambia l’intero corso di quella stessa vita. Carver coglie le vite nel loro scorrere, nel loro spezzarsi temporale, e coglie dei frammenti in cui quelle vite si fermano, specchiandosi nell’atroce eppure impellente bisogno di trovare un senso globale alle proprie azioni.
     Credo che il traduttore di questa raccolta di racconti abbia preso un abbaglio sostenendo che ‘mescolato al disincanto con cui Carver sa raffigurare alienazioni e mancanze, spunta qui e là un tratto più emotivo, passionale, in qualche caso un dettaglio erotico o comico. In una parola, una qualità affettuosamente umana’. In primo luogo, perché quelli non sono affatto dettagli, ma momenti che racchiudono un tutto narrativo. In secondo luogo, perché Carver non prova alcun affetto per l’uomo, ma lo denuda nel suo squallore, nella sua debolezza intrinseca. Per Carver c’è una grande malvagità che preme sul mondo, una malvagità assoluta che ha bisogno solo di uno spiraglio, di una (questa sì) minima fessura per riversarsi in esso, come un’esplosione improvvisa che imbratta ogni cosa di nero.
     Minimalismo, per Carver, significa soffermarsi sulle cose minime. Le cose minime rappresentano il limite esistenziale dell’uomo, e il soffermarsi su di esse implica il proiettarsi in una dimensione onirica, al di là della realtà, tornando poi ad osservarla da una prospettiva tragicamente universale. Il passaggio dalla realtà alla tragedia è consentito, più che da un elemento erotico o comico, da un elemento grottesco. Il passaggio dalla realtà al sogno, da piccolissimi dettagli, limiti che aprono a una dilatazione drammatica e potenzialmente infinita dell’io. Cavalli bianchi, ad esempio. Una delle poche figure nitide rintracciabili in diversi racconti di Carver: ‘Spostò tutta l’attenzione su una delle minuscole diligenze nere stampate sulla tovaglia. Quattro minuscoli cavalli bianchi trainavano scalpitando ciascuna diligenza nera e la figurina del postiglione aveva le braccia alzate e indossava un cappello a cilindro, e sopra le carrozze erano legati i bagagli e appesa da una parte c’era quella che sembrava una lampada a cherosene e, se lui stava ascoltando, lo stava facendo dall’interno della diligenza nera’.
     Nell’esempio riportato, una persona ascolta dall’interno di una diligenza nera trainata da cavalli bianchi, interagisce con la realtà a partire da un luogo decisamente irreale. Il primo stimolo è dato dallo sguardo che si sofferma su una cosa minima (il disegno della minuscola diligenza), ma questo soffermarsi sul dettaglio, sul minimo oggettivo, trasferisce la parola nell’assoluto soggettivo - la parola adesso proviene non da una diligenza disegnata sulla tovaglia, ma viene filtrata dal confine che porta a una diligenza che si muove oltre la tovaglia - e il non saper cosa fare della persona che ascolta si riveste di un valore superiore, si trasforma in strumento del tentativo dell’io di tornare a se stesso, di ritrovare l’identità dopo essersi soffermato sull’ineluttabilità del proprio limite. In qualche modo, anche il lettore partecipa: risucchiato dalla drammaticità di questo tentativo, ne diviene complice silenzioso; il lettore diventa una persona che ascolta da una minuscola diligenza nera trainata da cavalli bianchi.   


Il Barone Inesistente

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20 marzo 2013

Ian McEwan – Bambini nel tempo


Sweet child in time, you'll see the line
Line that's drawn between good and bad
See the blind man shooting at the world
Bullets flying, taking toll
If you've been bad - Oh Lord I bet you have
And you've not been hit by flying lead
You'd better close your eyes, bow your head
Wait for the ricochet.

Deep Purple, Child in Time

***

Al supermercato siamo spinti a scegliere la cassa meno affollata, dove meno vite ci sfilano davanti, per salvare il nostro tempo. Perché il tempo è prezioso e altre cose del genere. È la scelta più saggia. Vogliamo tornare alle nostre vite, nelle nostre case, perché solo fuori dal supermercato la spesa assume un significato reale. Ciò che abbiamo raccolto può essere toccato e consumato al riparo di mura amiche o, semplicemente, nella dimensione temporale che siamo riusciti a salvare. Certo, ma la nostra esistenza può cambiare ovunque, il tempo può bloccarsi ovunque. Anche in un supermercato. Ci voltiamo, e il bambino che giocava alle nostre spalle troneggiando sul carrello, non c’è più. Il nostro bambino è sparito. Quel mantello intessuto con le nostre vene ci viene improvvisamente strappato via, e ci ritroviamo spogli, dissanguati, con mani vuote che non sanno cosa afferrare; i nostri occhi cominciano a pentirsi di non aver notato i particolari di un certo scaffale, di non aver letto bene le etichette, di non aver prestato attenzione alle vite che ci sfilavano davanti.
     Nei nostri atti più banali e ripetuti può aprirsi una piccola voragine, e in quella piccola voragine un abisso in cui le lancette si muovono al contrario rincorrendo ciò che avrebbe potuto essere e non è stato. E il tempo, prima oggetto prezioso da conservare, si traduce in soggetto dominante da inseguire nella speranza assurda di poterlo raggiungere, afferrare, modificare. Noi stessi ci trasformiamo nell’intimità della corsa. Adesso perdiamo saggezza e notiamo dettagli che abbiamo vissuto, perso, inventato; ci riempiamo le tasche di caramelle che non possiamo più mangiare. Siamo bambini nel tempo.
     Il rapimento di una bambina in un supermercato è l’espediente narrativo scelto da  Ian McEwan per dare avvio al suo romanzo. È un evento concreto che però può essere letto come un’originale metafora sul grande enigma dell’infanzia. Infanzia come fuga dal tempo. Infanzia come assenza di tempo. Infanzia come desiderio sessuale della non responsabilità. Infanzia, soprattutto, come drammatica sottrazione di possibilità ontologica.
     Per McEwan non è il mondo, il divenire un individuo adulto, a privarci del nostro bambino, della nostra possibilità di non essere, di non diventare nulla, di non conoscere (o pretendere di conoscere) il bene e il male, galleggiando su una zattera di eterni piccoli piaceri e dispiaceri dal significato squisitamente sfuggente e immortale: è la stessa infanzia, l’impulso incontenibile ad essere bambini nel tempo, che risucchia, rapisce tutto ciò che nel presente sentiamo di non essere, di non aver vissuto, di aver  perso, inventato.  
     Stephen, il protagonista, è diventato scrittore. È entrato nel mondo scrivendo (suo malgrado) Lemonade, un bestseller per bambini. O meglio, un libro giudicato adatto ai bambini da parte di un bizzarro uomo d’affari, Charles, direttore di una delle più prestigiose case editrici londinesi. Partecipa a un noiosissimo ‘progetto per l’educazione dell’infanzia’ sostenuto dallo stesso Charles, che nel frattempo si è buttato in politica riscuotendo notevole successo. Situazione paradossale che serve all’autore per smascherare con amara ironia l’educazione del bambino in tutta la sua insensatezza. Non è il modo in cui si viene educati ad essere determinante, così come non può essere determinato a priori un modo giusto o sbagliato con il quale essere educati. L’adulto, in ogni caso, dovrà fare i conti con la sparizione del proprio bambino, dovrà assumersi la responsabilità nei confronti dei propri desideri in rapporto alla certezza della propria mortalità, dovrà accettare la condanna organica ad essere bambino nel tempo.
     Stephen, alla fine, ritrova un inspiegabile brandello di speranza. Scopre che sua moglie è di nuovo incinta, e insieme decidono di andare avanti replicando l’illusione di poter essere bambini al di là del tempo. Charles, invece, uomo di mondo sempre sul pezzo, apparentemente inscalfibile dal punto di vista emotivo, sicuro di sé perché padrone del tempo, in realtà nasconde una depressione divorante: pulsioni proprie dell’infanzia, come l’obbligo all’obbedienza e lo strano sentimento di libertà che ne consegue, lo richiamano come un sadico canto di sirena; cerca di tapparsi le orecchie, ma non ci riesce; cerca di sfogare la disperazione pagando prostitute per farsi sculacciare; cerca di esorcizzare il proprio dramma esistenziale, l’irrimediabile perdita del proprio bambino, con il ‘progetto per l’educazione dell’infanzia’ e scrivendo lui stesso un manuale sul tema. Ma non basta. Si pone la necessità di un mutamento radicale, e Charles opta per un autoindotto processo di regressione. Si ritira dalla politica e comincia una nuova vita non poco inquietante in campagna. Alla ricerca della felicità, ora tenta di vivere concretamente ciò che non ha mai vissuto in passato, o che forse ha soltanto perso o inventato: esplora i boschi con la sua fionda, costruisce una casa sull’albero, fabbrica una limonata dal sapore impossibile. Poi, un giorno, ci rimane secco: si spoglia, appoggia la schiena al tronco, e si lascia morire sotto la neve, sotto il cortocircuito dei propri giocattoli. 

Il Barone Inesistente

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14 marzo 2013

Nicolai Lilin – Educazione siberiana


Quando uscirono spuntava l’alba; gran folla già s’era adunata; alle finestre molti stavano fumando, o giocando a carte per passare il tempo, e giù la gente litigava, scherzava, spingeva. Tutto era vita gaia, fuorché un cupo gruppo d’oggetti nel centro: il palco nero, la forca, la corda, tutto l’orrendo apparato di morte.
Charles Dickens, Oliver Twist

***

Dal cielo della Transnistria piovono lame. Coltelli di varia fattura squarciano un cielo quasi sempre grigio con rare sfumature bianche e vanno a depositarsi magneticamente sugli angoli rossi delle case di Fiume basso. Angoli sacri, pieni di icone fedeli alla religione ortodossa, gli unici luoghi in cui le armi trovano riposo. E da quegli angoli intrisi di saggezza e violenza germoglia l’educazione siberiana.
     L’opera di Lilin è un romanzo di formazione costruito su episodi appiccicati tra loro con una logica che ogni tanto sfugge, con uno stile poco raffinato, con scene talvolta stucchevoli per la loro ripetitiva analogia col sangue e la sopraffazione. Ma non importa: il messaggio arriva al lettore in tutta la sua fisica chiarezza; un taglio improvviso e profondo al centro dello stomaco; le budella escono lentamente come una meditazione, e il messaggio assume le sembianze di un paradosso da decifrare, una domanda aperta sul senso della giustizia, sulla possibilità di stabilire una scala assiologica dove una verità scavalca l’altra perché più vera della precedente. Si può essere dei ‘criminali onesti’?
     Nicolai riceve la sua prima ‘picca’ quando è ancora un ragazzino col moccio al naso. Sa bene che le armi non posso essere usate in casa. Sa bene che possono essere usate solo per cacciare e procurare del cibo alla comunità, per tagliare i tendini d’Achille a chi ha commesso un torto inconfutabile, per sgozzare uomini in uniforme (incarnazione di un ordine maligno che deve essere solo disprezzato e, possibilmente, estirpato alla radice). Le regole, insomma, sono rigide. Nessuno possiede niente perché tutto è di tutti, e ciascuno ha il suo ruolo di criminale onesto: c’è chi ruba sui treni, c’è chi si dedica alla truffa, c’è chi massacra poliziotti e così via. Il tatuatore è lo scriba di questa società pseudocomunista: scrive le storie della gente sulla loro pelle. È un compito fondamentale perché unicamente attraverso questi segni incisi nella carne un siberiano può essere riconosciuto come tale, come appartenente alla casta dei Seme nero piuttosto che a quella dei Seme grigio, a una famiglia piuttosto che a un’altra. E se in Siberia non fai parte di una famiglia, non solo non puoi ricevere un’educazione, ma sei proprio tagliato fuori da ogni eventuale affare criminale, sei un reietto, sei un quaderno con le pagine vuote.
     Con la sua autobiografia (sicuramente edulcorata ma non è questo il punto), Lilin pone al centro della narrazione il tema della famiglia. Tutto parte dalla famiglia: l’educazione, la sottomissione a definiti moduli comportamentali, a gerarchie, a diritti, doveri, perfino a sentimenti. La famiglia di Lilin non è costituita da un gruppo di persone legate biologicamente che condivide lo stesso tetto: questa è una vecchia invenzione dei Padri della Chiesa per contenere gli impulsi sessuali delle prime comunità cristiane nel recinto del matrimonio (non c’è un singolo passo della Bibbia che tratti esplicitamente di un nucleo familiare biologicamente determinato, anzi, se ci pensate, la vicenda della Madonna fecondata dallo Spirito Santo può essere letta come prefigurazione della fecondazione artificiale, oggi possibile e osteggiata dagli stessi uomini di Chiesa). La famiglia di Lilin è incredibilmente moderna. Non è un'utopia, un esperimento antropologico che fa acqua da tutte le parti. È una proposta futuribile: affonda le sue origini nel comunismo sovietico, ma si adorna di un’energia primordiale e di un classicismo replicabile nel tempo e nello spazio. Un sapore antico che profuma di nuovo. La famiglia di Lilin ha una forte impronta religiosa ma è essenzialmente simbolo, storia e appartenenza: è la storia che si può leggere sulla pelle, è l’appartenenza ad una serie di connessioni simboliche che rimandano ad uno stesso regno, senza re e senza territorio, che poggia su colonne rastremate dalla tradizione, un passato condiviso da un certo numero di persone, un passato sempre attuale in ogni angolo del mondo: in ogni angolo del mondo può esserci un siberiano di Seme nero o di Seme grigio, un criminale onesto.
     Il tema della famiglia si fonde a quello dell’onestà. I criminali di Fiume basso agiscono onestamente anche quando schizzano la neve di rosso, anche quando il grigio delle loro lame mozza un braccio, una gamba, fa saltare gli occhi dalle orbite, perché la violenza non è mai fine a se stessa per i siberiani: la violenza costituisce la difesa primaria di un codice d’onore, che è alla base della famiglia, e la famiglia è il dono da lucidare nell’ombra, l’intimo significato della vita da preservare e difendere ad ogni costo. Così, però, si rischia di finire (pur onestamente) in carcere.
     Il capitolo dedicato al carcere minorile è la parte del libro scritta con maggiore accuratezza. Proprio quella che il delicato Gabriele Salvatores ha sfibrato, se non tranciato di netto, nella sua opinabile versione cinematografica. Perché, sì, a Fiume basso ci sono i colombi. I colombi sono come tatuaggi volanti per i criminali, simboli che volteggiano, disegnando nell’aria traiettorie di libertà: i più anziani li custodiscono in gabbie dall’aura sacra e misteriosa e ogni tanto insegnano ai giovani aspiranti onesti criminali come gettarli verso il cielo senza il rischio che cadano a terra sfracellandosi. È un’immagine molto poetica, resa bene fotograficamente (grazie anche a un John Malkovich in gran spolvero), ma il regista dimentica che se i colombi vanno verso il cielo, dal cielo piovono lame, e il film snatura completamente il messaggio del romanzo di Lilin, traducendosi in una sciatta operazione commerciale, che mescola le scene e i personaggi nel peggiore dei modi, annullando quasi completamente il senso della violenza nell’educazione siberiana, nel romanzo di formazione di Nicolai, criminale onesto. Il carcere minorile di Salvatores sembra il rifugio dei bambini sfollati dell’Isola che non c’è: qualche scarafaggio fa capolino, ma nel complesso domina un’atmosfera rosea, fabiesca, colpevolmente irreale. Manca solo Wendy con il suo vestitino ricamato e la citazione sarebbe perfetta. Il carcere minorile di Lilin, invece, è un’enorme stanza buia, un vecchio magazzino affollato da anime dimenticate da tutto e da tutti. Un fioco bagliore faticosamente fluisce da minuscole grate lottando con un vapore indistinto, densissimo, pestilenziale, formato dal sudore di corpi nudi vivi e morti, da urla e pianti incessanti, da ginocchiate e gomitate che spaccano gomiti e ginocchia, da sodomie e umiliazioni collettive. Lo spazio è quasi interamente coperto da brande sovrapposte; è difficile respirare; è difficile nutrirsi, lavarsi, sopravvivere. Alcuni ottengono piccoli favori dalle guardie in cambio di prestazioni sessuali: matite colorate, una mela, una rivista. Un giorno arriva un pacco: i bambini georgiani si sono alleati con i carcerati di Fiume basso e condividono con loro un boccone di formaggio. Formaggio fresco, fatto in famiglia. Un boccone di libertà pura, conquistata senza vendersi. Un boccone del mondo di fuori. Un mondo che ancora sembra esistere.
     L’esperienza del carcere è inscindibile da quella della libertà. I colombi volteggiano sempre in coppia. È un simbolo. È l’unione metafisica del maschile e del femminile (la femmina, senza il maschio, non potrebbe volare). È armonia della natura: onesta, senza fronzoli, molto vicina alla verità, forse alla verità più grande di tutte le altre. Tuttavia questa purezza, questa onestà, non può sussistere senza una pioggia di lame.
     Nicolai ha salutato la Transnistria, è emigrato in Italia, ha lasciato la neve per il Sole e si è messo a fare soldi scrivendo. Oliver Twist, orfanello lercio e pallido, è diventato, dopo una serie di peripezie, un borghese paffutello e azzimato. Altri tempi, altri libri, quello che volete. Ma gli arnesi della morte sono sempre lì. Per quanto ci si possa formare, per quanto possa ampliarsi la consapevolezza di noi stessi e delle cose che ci circondano, giustizia e ingiustizia non si separano; il bene e il male non si separano, non possono separarsi. Questa, forse, è la verità più vera di tutte le altre.     

Il Barone Inestistente

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08 marzo 2013

José Saramago – Cecità


Agisci in modo da trattare l’uomo così in te come negli altri sempre anche come fine, non mai solo come mezzo.

Immanuel Kant, Critica della ragion pratica

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Il disco illuminato di un semaforo, poi più niente: gli occhi precipitano in un mare di latte dove non si distinguono più contorni, ombre e colori. Il ‘mal bianco’ si diffonde rapidamente e tutto sembra precipitare in un’anarchia senza via d’uscita. Una disperazione cieca, è il caso di dire. Mani che si protendono verso il nulla, verso una voce (forse) benevola. Ma non c’è tempo per cercare amici. Il Governo ha predisposto una quarantena immediata, per tutti i ciechi, i contagiati e i possibili contagiati. Un ex-manicomio: file di brande senza cuscini, latrine destinate ad emettere un fetore esponenziale, cibo che non arriva, persone care che non si trovano più. Questo è il quadro in cui si mescolano i protagonisti del romanzo di José Saramago. Pennellate pastose su una tela acontestuale, squarciata, ridotta a pochi brandelli di tessuto. Ciechi senza nome, senza origine, senza speranza vagano per camerate in cui una volta non si era ciechi, ma semplicemente pazzi. Il primo cieco, la moglie del primo cieco, il ladro, la ragazza con gli occhiali scuri, il vecchio con la benda nera: persone che si muovono in uno spazio improvvisamente pieno di ostacoli, di sconosciuti, di grida mai sentite. Lacrime, lamenti, frasi meccaniche di un megafono che ripetono ogni giorno le stesse istruzioni alla stessa ora, come se il tempo avesse ancora senso. E adesso ogni cosa produce un rumore più grande.
     La cecità rende tutto ironicamente essenziale. Perfino l’etica, di cui Kant tra i primi ha postulato una sua possibile universalità, è ridotta all’osso; o meglio, alle ossa e alla carne. L’etica continua a porsi, nella sua problematicità, come necessità non relativa, come bisogno del corpo e dell’anima, non più razionale, ma irrazionale, come l’istinto che porta a spogliarsi dei vestiti sporchi per ricevere l’acqua dal cielo, che non si vede, ma si sente sulla pelle come una carezza ruvida e alleata. L’etica diventa la tensione che ristabilisce un rapporto puro tra l’uomo e la natura, e se i fondamenti della sua possibile universalità sono appannaggio della ragione, è un profondo, enigmatico slancio interiore, legato alle mancanze corporali più primitive, che fa affiorare nel reale la necessità di un’etica universale. L’etica rivela se stessa attraverso un’estetica istintuale della purezza.
    Se fossimo tutti ciechi, cambierebbero i nostri sentimenti? Cambierebbe dunque anche l’etica che guida le nostre azioni? Ecco le domande da cui parte Saramago nel scrivere il suo romanzo. L'etica come insolubile problema tutto umano, è il perno della narrazione. L'etica come certezza e incertezza, come spazio mentale relativo e universale.
     Per Kant l’etica non aveva alcun rapporto con i sentimenti, con quelle che lui definisce ‘inclinazioni individuali’: se il re dice ad x che deve accusare y di omicidio pur sapendo x che y è innocente, cosa succede? In xparla’ la legge morale e gli dice che ciò che sarebbe universalmente giusto corrisponde al rifiuto dell’istinto di conservazione (un sentimento, appunto) e alla sottomissione di fronte all’ineluttabile verità dell’innocenza di y: x dovrebbe quindi rendere la propria volontà conforme alla legge morale rinunciando alla preservazione di se stesso, disobbedendo al re e compiendo la scelta razionalmente più giusta, sacrificandosi, donando la propria morte per la vita di chi è stato ingiustamente accusato: x sa immediatamente cosa deve fare per non ricadere nel torto, per non macchiarsi di ingiustizia. Eppure Kant stesso incorre in un cortocircuito. Se il tuo migliore amico bussa alla tua porta confessandoti di essere un omicida inseguito dalla polizia e pregandoti di nasconderlo, tu lo nascondi. Ma se dieci minuti dopo la polizia bussa alla porta e ti chiede se hai visto l’amico accusato di omicidio, tu cosa fai, cosa è più giusto rispondere? Tutta l’elucubrazione kantiana oscilla su questo sì o questo no, ma è un’altra storia.
     La storia di Saramago è meno filosofica di quanto possa sembrare: è vero, non ci sono nomi propri e la narrazione pare un lungo apologo da decifrare. Tuttavia, l’autore ha voluto divertirsi, giocare abilmente con il lettore per condurlo ad una soluzione morale che non c’è.
    Nell’ex-manicomio la gente si organizza. Un gruppo di simpaticoni si è portato appresso armi e munizioni, e se queste mancano ci sono spranghe e bastoni: vogliono essere loro a comandare, vogliono essere i ciechi più potenti tra i ciechi, con la forza, per accaparrarsi più vettovaglie e ridicoli e vergognosi privilegi: chiedono donne dalle altre camerate, allestendo orge alla cieca. Ma un giorno (o una notte), schizzi di sperma si fondono a schizzi di sangue. La moglie del medico – guarda caso, un oculista – è inspiegabilmente rimasta non cieca. Ha portato con sé un paio di forbici, nella vaghissima speranza di poter accorciare la barba del marito per mantenere una forma invisibile di dignità coniugale. Presto segue la rappresaglia, la strage, e anche l’incendio, perché una donna prescelta per l’orgia aveva gelosamente conservato un accendino, la donna dell’accendino, e usa quest'ultimo per dare fuoco alle barricate di materassi accatastati per prevenire l’attacco. Una torcia umana si consuma così, crudelmente, banalmente, con violenta libertà.
     I simpaticoni sono ridotti in cenere, le guardie sono andate via: ormai sono tutti ciechi, non resta che scappare dall’ex-manicomio in fiamme; alla ricerca, soprattutto, di qualcosa da mangiare. Alcuni si accasciano al suolo, sotto la pioggia scrosciante, lasciandosi perire. Altri –  il primo cieco, la moglie del primo cieco, il ladro, la ragazza con gli occhiali scuri, il vecchio con la benda nera, il medico e la moglie del medico – decidono di riesumare le ultime forze e di cercare fortuna in quella che era stata la loro Città. Le strade sono affollate di persone che a tentoni si fanno strada tra cadaveri ed escrementi: tirano la testa indietro e aprono le bocche per ricevere qualche goccia di pioggia. La moglie del medico incontra un cane che le salta addosso e beve le sue lacrime. Lacrime e pioggia. Il cane delle lacrime segue la comitiva fino a un vecchio negozio abbandonato, il nuovo rifugio dei sopravvissuti. La ragazza con gli occhiali scuri, una prostituta, vuole tornare a casa sua per vedere se ci sono ancora i genitori. I genitori non ci sono. C’è una vecchia con le chiavi che si nutre di conigli scuoiati vivi nel cortile del condominio. In cambio di qualcosa da mettere sotto i denti, lei preserverà le chiavi. E così farà, finché non la ritrovano distesa nel pianerottolo, rigida come una tavola da surf, con le chiavi nel pugno. La vecchia con le chiavi è morta sola, ma ha preservato le chiavi. Muore porgendo al nulla le chiavi di cui era depositaria.
    La comitiva di ciechi si riunisce a casa del medico, poiché la moglie del medico è l’unica in grado di vedere. Mangiano scatolame e brindano alla vita con un bicchiere di acqua minerale, seduti in cerchio nel salotto al lume di una lampada ad olio, dopo essersi depurati sotto la pioggia in terrazza. La moglie del cieco va a caccia di cibo. Trova un magazzino, ma poi si accorge che tra gli scaffali immersi nel buio sono stipati carogne in decomposizione. Dopo aver vomitato più volte, si ritrova barcollante in una chiesa: visione finale: tutte le statue e tutti i dipinti hanno la faccia bendata con nastri bianchi, eccetto una figura, quella di santa Lucia che porge i suoi bulbi oculari su un piatto d’argento. La moglie del medico torna trafelata alla sua abitazione e il mattino dopo la cecità, miracolosamente, scompare.
    Saramago scrive un romanzo sull’assurdità dell’esistenza: non c’è salvezza, la cecità non è una malattia curabile: è il disco lampeggiante di un semaforo, va e viene, fa parte dell’uomo, come dell’uomo fa parte l’eventualità di una purificazione; la cecità non è circoscrivibile a un male preciso, di cui ci si può sbarazzare stabilendo la cura; la cecità è un paradosso intrinseco all’essenza dell’etica, che per l’autore ha un fondamento squisitamente estetico, sensibile, ma ha anche bisogno di una formalizzazione razionale: ‘È meglio indossare vestiti puliti su corpi sporchi, che vestiti sporchi su corpi puliti’, dice la moglie del medico, santa Lucia non per devozione, ma per puro caso. 

Il Barone Inesistente

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