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L'Inesistente: Charles Dickens – Oliver Twist

03 luglio 2014

Charles Dickens – Oliver Twist


Il problema dell'abbigliamento ha un'importanza enorme per coloro che vogliono avere l'aria di possedere quel che non possiedono affatto; perché è spesso il mezzo migliore per arrivare a possederlo davvero.

Honoré de Balzac, Le illusioni perdute

***

Bene e male convivono, e per quanto possano litigare, nessuno dei due è in grado di esercitare la propria influenza sull’altro fino ad annientarlo. Un matrimonio che non conoscerà mai il divorzio. Se infatti non esistesse il bene, il male perderebbe tutto il suo fascino; probabilmente un omicidio sarebbe un po’ come bere il caffè la mattina; e un crimine, di qualsiasi genere, non potrebbe essere punito perché non ci sarebbero più leggi da infrangere. Allo stesso modo, se il male soccombesse agli screzi coniugali, ciascuna azione dell’uomo, una volta eseguita, verrebbe subito dimenticata.
     L’opera dickensiana è un testo di formazione borghese della prima metà dell’Ottocento, bildungsroman volutamente stucchevole: narra il patetico iter di un trovatello che, vessato dalla crudeltà della gente, alla fine approda alla villa di un nababbo filantropo, e vissero tutti felici e contenti. Eppure, alcune incongruenze meritano di essere evidenziate.
     Bianco e nero: la soluzione cromatica non lascia scampo alle sfumature. Ci sono i buoni e ci sono i cattivi; ma soprattutto c’è Oliver, che non è né l’uno né l’altro. Fanciullo furtivamente stravagante, coltiva un’idiosincrasia congenita per le bugie. Si avventa su Noè, il garzone dell’impresario di pompe funebri, in seguito ad alcune tanto oltraggiose quanto false osservazioni sulla defunta madre. Fin qui niente di sorprendente: le bugie non sono estranee all’uomo, anzi, s’innestano nella sua natura come garanzia di dinamismo intellettuale, specialmente nei bambini; sono espedienti ai quali si ricorre per risolvere, almeno temporaneamente, situazioni difficili da sostenere nell’immediato, o per divertirsi alle spalle della vittima dell’inganno. Insomma, le bugie sono uno strumento umano, ma è bizzarro che Oliver vada fuori dai gangheri perché Noè mente. Non è quindi l’offesa ricevuta a farlo piangere: è la finzione dell’atto a risultargli insopportabile. Oliver si identifica con la verità, una verità non rivelata, dal ruolo passivo, che non ha bisogno di essere divulgata; una verità in fuga, che stilla da piedi graffiati dalla strada.
     Oliver non ha genitori, sembra quasi partorito dal nulla, e non sa dove andare, ma in primis non sa dove restare, dato che nessun luogo si adatta alle sue esigenze. Scappa dal negozio di bare e una calamita invisibile lo attira nella succursale dell’inferno. Un ebreo gobbo si erge su una torma di ragazzi dannati e li governa senza coda: a Fagin basta il carisma delle rughe che disegnano il suo volto, l’inflessione metallica che imprime alla voce, e poi Minosse un naso così se lo sogna. La banda di ladruncoli non si capacita dell’ingenuità del nuovo arrivato, così poco umano: viene dalla Luna!, gridano; e lo accerchiano, eccitati, lo spingono di sfuggita, esorcizzano con il chiasso un timore che non sanno spiegare. Ogni personaggio, anche quello apparentemente più savio, capta in Oliver un quid di sua primitiva appartenenza, ma sepolto in un luogo troppo remoto per essere riesumato tramite un processo razionale.
     Tutti lo spogliano, e non perché vogliono abusare sessualmente di lui. Oliver di per sé è nudo, puer fulvus che passivamente combatte l’umanità al di là del bene e del male: sono gli altri, i buoni e i cattivi, che lo vestono quando lo accolgono nella loro schiera, in una perpetua sfilata che gli impone di conciarsi a seconda di come Golia capricciosamente delibera. Fagin gli fabbrica delle scarpe nuove, per essere più rapido negli scippi; il riccastro fa bruciare gli stracci indossati in precedenza agghindandolo come un piccolo zar; rapito e trascinato per la seconda volta al covo dei ragazzi dannati, questi gli ridono in faccia e gli strappano le preziose stoffe di dosso coprendolo con una tunica da benedettino galeotto.
     Oliver è nudo, solo e unico. È nudo: non può vestirsi, perché vestendosi assumerebbe una dimensione relativa; è solo, perché non vestendosi è castigato a non essere riconosciuto da nessuno; è unico, perché non essendo riconosciuto da nessuno, bene e male se lo respingono a vicenda come una pallina da ping pong.      
     In superficie ammettiamo pure che il romanzo di Dickens sia un’opera di formazione; ma il suo protagonista non si forma affatto: gli fanno trincare gin e acqua calda, lo iniziano al furto, lo decorano come un damerino, lo strapazzano ogni oltre immaginazione, però lui non cambia di una virgola. Schiavo per caso, ribelle per necessità, Oliver non conosce emozioni, se non passeggere; il suo scopo non è essere sentimentale (in positivo o in negativo): la sua funzione strutturale è correre senza tregua trasportando verità, vestito e spogliato da chiunque.
     Oliver incarna il paradosso di una verità universale; la verità che i buoni e i cattivi ospitano part-time, per corroborarsi; ma sia gli uni che gli altri, proprio a causa di una presa di posizione – e Dickens è maestro nell’estremizzare questo fenomeno – rivolgono uno sguardo mutilato all’accadere naturale delle cose e, per ignoranza, non possono trattenere Oliver troppo a lungo nelle loro grinfie. Fatta eccezione per l’happy ending finale, ma non è detto che Oliver demorda dal fuggire: anche l’abito borghese gli sta stretto. Semplicemente, il libro doveva terminare così, per la gioia dei lettori benpensanti. Oltre la patina di melassa indotta dalla scelta stilistica dell’autore, nella narrazione vibra un problema non banale: il fondamento etico della corsa, metafora della sfida a difendere la propria nudità vivendo, nonostante l’inevitabile spogliarello stabilito dal mondo. Rimanere nudi è impraticabile, ma è possibile scegliere l’abbigliamento, consapevoli della sua non verità.  


Il Barone Inesistente

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